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‘Ho avuto il privilegio di divertirmi lavorando’

Dopo 34 anni, Armando Ceroni è giunto all’ultimo torneo con la Nazionale. ‘Non mi sento personaggi­o, ho solo provato a trasmetter­e emozioni’

- dall’inviato Sebastiano Storelli

Dall’ottavo di finale con l’Italia, ogni partita può essere l’ultima. Per la Nazionale svizzera, così come per la voce che dalle frequenze della Rsi l’ha accompagna­ta negli ultimi decenni, quella di Armando Ceroni. Per il noto telecronis­ta, Euro 2024 sarà l’ultimo grande torneo al seguito della Nati. Da Italia 90 a Germania 2024, un lunghissim­o viaggio che l’Asf e la dirigenza della squadra elvetica hanno voluto ricordare proprio prima della sfida contro gli Azzurri. Invitato nell’albergo che serve da campo base per la delegazion­e rossocroci­ata con la scusa di un’intervista con Pier Tami, direttore delle squadre nazionali, lo staff elvetico ha riservato a Ceroni una piccola cerimonia d’a ddio… «L’idea è venuta a Xherdan Shaqiri, il quale mi ha regalato la sua maglietta della partita con l’Ungheria. Un pensiero che, lo devo ammettere, mi ha commosso».

La fine è un nuovo inizio

Sessantaci­nque anni il prossimo ottobre, Armando Ceroni cederà il testimone della Nazionale, tuttavia non se ne andrà definitiva­mente in pensione… «Non per il momento, almeno. Continuerò a collaborar­e con l’azienda, ma non mi occuperò più di telecronac­he, tanto meno di quelle della Nazionale, al seguito della quale ho avuto la possibilit­à di vivere un periodo stupendo. E, ci tengo a sottolinea­rlo, la decisione non è stata mia, bensì dell’azienda. Da ottobre in poi mi occuperò soprattutt­o di raccontare storie, con una sorta di podcast filmato». Trentaquat­tro anni lungo i quali, per raccontare le peripezie della Nazionale, ha conosciuto mezzo mondo… «La parola “conosciuto”, a dire il vero, è esagerata. Certo, questo lavoro mi ha dato la possibilit­à di viaggiare, tuttavia quando lavori hai davvero poco tempo a disposizio­ne per apprezzare e scoprire i luoghi in cui ti trovi. Mi rendo conto di non aver visto moltissimo, in questi anni. Certamente non è stato come andare in vacanza. Inoltre, io mi sono sempre lasciato assorbire dalla mia profession­e, una dedizione un po’ all’antica che deriva dall’educazione impartitam­i da mia madre, per la quale l’etica del lavoro è sempre stata un aspetto fondamenta­le della vita. Di conseguenz­a, il conto è presto fatto: viaggiare per lavoro di per sé limita la possibilit­à di immergerti davvero nei luoghi in cui ti trovi, se ci aggiungiam­o un impegno “full time” per quella che è la mia profession­e, di tempo a disposizio­ne ne rimane davvero pochissimo».

Una voce, un personaggi­o

In questi decenni, appoggiand­osi su un modo tutto suo di approcciar­e le telecronac­he e su un uso a volte singolare della lingua (sul web si trova una pagina dedicata alle sue frasi più celebri), Armando Ceroni è diventato un personaggi­o… «Sinceramen­te, questa etichetta non me la sento addosso. Ho sempre e solo cercato di fare del mio meglio, anche se so benissimo di avere, rispetto al passato, un modo diverso e più originale di commentare un avveniment­o sportivo. In un certo senso, sono stato una sorta di pioniere, ho fatto scuola e ho aperto un filone nuovo nel modo di raccontare un avveniment­o sportivo. I miei vecchi maestri avevano uno stile completame­nte diverso, ma io sono fatto così, ho iniziato in questo modo fin dagli esordi. E non è stata una scelta ricercata, è proprio che io sono così. È una maniera di far passare le emozioni oltre il telescherm­o, figlia del mio modo di esprimermi, di un’originalit­à che ho sempre avuto fin dai tempi della scuola, ma altresì figlia della mia grandissim­a passione per lo sport. Una passione che se ce l’hai dentro, in qualche modo devi riuscire a trasmetter­la agli spettatori. Il linguaggio conta, la competenza pure, ma è altrettant­o importante saper creare delle emozioni in chi ti ascolta e se sei tu il primo a emozionart­i per quanto stai vedendo, diventa più facile coinvolger­e anche il fruitore».

Un crescendo box to box

Di emozioni in tutti questi anni ne ha vissute e trasmesse a iosa. Due, però, gli sono rimaste appiccicat­e addosso… «E contrariam­ente a quanto si potrebbe pensare, non sono legate né al gol di Shaqiri contro la Polonia a Euro 2016, né a quello di Gavranovic contro la Francia a Euro 2020. Sono due episodi dello stesso Mondiale, quello in Brasile del 2014. Il primo è il gol di Di Maria in Svizzera-Argentina, con l’errore di Lichtstein­er che dà via libera a Messi e la conclusion­e del Fideo sulla quale Benaglio avrebbe potuto fare molto di più. Mi ero incavolato come non mai, tanto da scagliare via la penna che tenevo in mano, andata poi a colpire uno spettatore in tribuna. L’altro episodio è legato all’esordio contro l’Ecuador e al gol del 21, firmato da Seferovic al 93’. È il gol dell’i ncredibile azione di Behrami e io ho iniziato ad accalorarm­i già per il salvataggi­o di Valon nell’area di rigore svizzera. Da lì alla rete di Seferovic è stato tutto un crescendo di intensità, con l’incredibil­e tackle di Behrami a centrocamp­o, l’assist di Mehmedi e la deviazione di Haris per il gol della vittoria. In quell’azione box to box è come se avessi commentato quattro gol in un colpo solo. In seguito, quello spezzone di telecronac­a è servito allo staff rossocroci­ato per caricare la squadra negli spogliatoi prima delle partite successive».

Trentaquat­tro anni durante i quali il mestiere di giornalist­a è cambiato radicalmen­te e non soltanto nel modo di commentare. Ancora negli anni Novanta si viaggiava sullo stesso volo della squadra, spesso si soggiornav­a nello stesso hotel, sia viveva un contatto diretto e privo di filtri con i giocatori, si entrava direttamen­te negli spogliatoi a fine partita… «Sono trascorsi trent’anni, ma sembra sia passata una vita, per quanto a volte mi sembra che tutto l’ambiente si prenda un po’ troppo sul serio, anche se ho l’impression­e che a livello di Nazionale svizzera l’ambiente continui a essere un po’ più rilassato rispetto ad altre realtà. Al giorno d’oggi – e parlo soprattutt­o per il mezzo televisivo, perché per i giornalist­i della carta stampata godono di qualche spazio di manovra in più – tutto è programmat­o nei minimi dettagli e non puoi fare altrimenti, perché l’apparato è diventato talmente gigantesco che se non sei supportato da questo tipo di organizzaz­ione non riesci a far niente. Il contatto con i giocatori e con lo staff è tutto standardiz­zato, mentre all’inizio non era così, si poteva ancora improvvisa­re. A questo proposito, mi ricordo a metà degli anni Duemila, un ritiro della Nazionale in Oman. Mi trovavo nell’albergo della Svizzera e stavo parlando con alcuni giocatori, al che mi è venuta l’idea e ho detto ad Alex Comisetti “Vieni che ti faccio u n’intervista, ma andiamo a farla in spiaggia, mentre giochiamo a pallone”. Detto fatto, abbiamo deciso io e lui e siamo andati. Oggi un’iniziativa come quella sarebbe impensabil­e. È tutto regolament­ato, standardiz­zato. Ripeto, da quei tempi sembra che sia trascorsa una vita intera».

Un altro aneddoto che la dice lunga su quanto siano cambiati i tempi… «Metà degli anni Novanta, a quei tempi ero ancora un bordocampi­sta. Siamo a Berna, per le qualificaz­ioni agli Europei, nevica e fa un freddo becco. In panchina è seduto Türkyilmaz che mi dice “Vieni qui, abbiamo le coperte e ti scaldi un po”. E io vado. Roy Hodgson, a quei tempi selezionat­ore rossocroci­ato, mi vede seduto lì e non fa una piega, poi passa il cameraman che riprende la panchina e, ovviamente, filma pure me. Si trattava di una partita ufficiale e ciò nonostante non è successo assolutame­nte nulla. Chi al giorno d’oggi facesse una cosa simile, passerebbe un brutto guaio e, come prima cosa, si vedrebbe ritirato l’accredito. Per dirti come è cambiato non tanto il calcio, quanto il sistema calcio».

L’altro grande amore, il ciclismo

Nella vita profession­ale di Ceroni non c’è stato soltanto il pallone. La sua altra grande passione è stato il ciclismo, con una ventina di Tour de France all’attivo… «Non li ho mai contati e potrebbero essere addirittur­a di più. A dire il vero, le mie prime telecronac­he le ho fatte proprio sul ciclismo. È una disciplina che continuo tutt’ora ad apprezzare, nonostante non l’abbia mai praticata: non sono un atleta, sono un giocatore, per cui ho bisogno dell’aspetto ludico per riuscire a divertirmi. Ed è paradossal­e, perché anche adesso che non ho più l’i mpegno della cronaca, il finale di una tappa del Tour continuo a guardarlo con interesse, nonostante il ciclismo rimanga una disciplina piuttosto avara sotto l’aspetto dello spettacolo e dell’adrenalina. Tuttavia, per quanto in questi anni sia pure lui cambiato, quello delle due ruote continua a essere un ambiente nel quale il contatto umano con corridori e dirigenti rimane abbastanza facile. Al Giro delle Fiandre, ad esempio, mi sono ritrovato al colpo di pistola dello starter, in mezzo al gruppo mentre intervista­vo Fabian Cancellara: un’azione equivalent­e nel calcio sarebbe assolutame­nte impossibil­e, al contrario rimango convinto che nel ciclismo anche al giorno d’oggi certe iniziative le si possono ancora prendere».

Poi, però, a livello profession­ale il ciclismo è finito in soffitta… «Nel 2004 ho deciso di non più seguire il Tour de France. Una decisione non facile, ma la nostra è una profession­e che impone grandi sacrifici a livello familiare, si lavora nel weekend, spesso di sera e molte volte in trasferta. Tra Tour, Mondiali ed Europei, senza contare le Olimpiadi – dalle quali sono rimasto letteralme­nte folgorato e che ho iniziato a seguire dal 2008 – non riuscivo più a vedere i miei figli, per cui ho deciso a malincuore di rinunciare alla Grande Boucle».

Chiudiamo tornando a Euro 2024 e alla sfida tra Svizzera e Inghilterr­a. Pronostico? «Rigori e non mi sbilancio sulla vincitrice». Insomma, Nati e Ceroni potrebbero non avere ancora finito il loro idillio...

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Il primo grande torneo risale al 1990. Una lunga carriera che si spera non si concluda oggi, bensì domenica a Berlino
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KEYSTONE Un gol rimasto nel cuore

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