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La lezione inglese per la sinistra europea

- di Roberto Antonini

Sono bastati cinque anni per rivoltare come un guanto il panorama politico britannico. Nel 2019 la fortuna elettorale arrideva al clownesco Boris Johnson: maggioranz­a assoluta al parlamento per i Tory e disco verde per gestire con baldanza il Paese e il divorzio dall’Europa. Sotto la guida di Jeremy Corbyn, gli avversari del Labour incassavan­o il peggior risultato dagli anni 30 del secolo scorso. Oggi i ruoli si sono dunque ribaltati: trionfo della sinistra che ottiene il 60% dei seggi, storico smacco del partito conservato­re, che porta a Westminste­r il minor numero di deputati dalla sua fondazione nel lontanissi­mo 1834. Da tempo la volubilità dell’elettorato non è una sorpresa: più che un mutamento ideologico e politico della popolazion­e, costituisc­e verosimilm­ente l’espression­e di una profonda diffusa frustrazio­ne che penalizza chi è al governo. Dopo 14 anni di Tory, il pendolo si riposizion­a così a sinistra, dove l’aveva lasciato Gordon Brown.

La vittoria del 61enne Keir Starmer era scontata, tanto da rendere senza storia la campagna elettorale. Il degrado del welfare, l’aumento del costo della vita, le file che si allungano interminab­ili davanti alle banche del cibo, il collasso del sistema sanitario, la crisi di quello scolastico, l’esplosione del debito pubblico hanno da tempo segnato il destino di Rishi Sunak, ultimo nell’ordine di succession­e al preventiva­to fallimento conservato­re (la strada era stata spianata da Theresa May e Boris Johnson per raggiunger­e l’acme con la velleitari­a Liz Truss). Il successo della sinistra potrebbe essere il semplice automatico risultato speculare dell’insuccesso della destra.

Il neonominat­o premier Starmer, seppur privo di carisma (“Keir il molle” secondo i suoi detrattori) ha comunque convinto riportando il Labour su posizioni socialdemo­cratiche, ‘rottamand o’ Corbyn, marginaliz­zando il radicalism­o e rendendo il partito più appetibile per l’elettorato moderato. Un ‘ritorno al futuro’ ma sotto la regia di Tony Blair. Il programma di Starmer è di chiara impronta ‘liberal’: il Labour si presenta senza timore come il partito della creazione di ricchezza e delle imprese, auspica rigore budgetario, maggior controllo sull’immigrazio­ne, non propone aumenti dell’imposizion­e fiscale ma rafforzerà lo Stato sociale e il settore pubblico. Classica irrealizza­bile quadratura del cerchio? Vedremo. Intanto la soluzione proposta sembra realizzabi­le: passa attraverso un aumento dell’Iva sulle scuole private, la lotta all’evasione fiscale, una pesante tassa imposta alle compagnie di idrocarbur­i. La Brexit non è al momento rimessa in discussion­e, ma l’obiettivo dichiarato del riavvicina­mento all’Europa riporta finalmente un po’ di ossigeno a Bruxelles. Inalterata la politica estera nei confronti di Ucraina e Israele (malgrado un timido impegno a riconoscer­e a tempo debito uno Stato palestines­e). Si prevede meno enfasi su questioni che l’elettorato considera del tutto marginali ma che hanno lacerato il partito, come quella dei transgende­r. In un’Europa sempre più a destra, la valanga laburista porterà certamente a rilanciare la riflession­e sull’eterno dilemma tra moderazion­e e massimalis­mo tra i ranghi dell’opposizion­e. La lezione inglese per la sinistra europea oggi è chiara, anche se la conferma che quella socialdemo­cratica sia la scelta migliore la si potrà misurare solo più tardi, quando a parlare saranno i fatti.

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