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La malattia, lo stop e il lento ritorno

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La strada di Lena non è comunque sempre stata in discesa. I suoi occhi si velano ancora di lacrime quando ricorda i momenti del 2021. «Nel febbraio di quell’anno, dopo che già da tempo non ero al massimo delle mie condizioni fisiche, durante un allenament­o mi sono sentita improvvisa­mente molto male. Chi mi seguiva ha capito subito che occorreva agire drasticame­nte. Così sono stata ricoverata, e dopo lunghe e minuziose analisi si è scoperto che ero affetta da una malattia autoimmune che debilitava seriamente il mio fisico. Ho quindi dovuto iniziare una terapia per tenerla sotto controllo, e di riflesso interrompe­re immediatam­ente la mia attività sportiva. Terapie che si sono protratte per un anno e mezzo, ma durante il quale io, pian piano, avevo ripreso il contatto con la palestra e timidament­e anche con gli attrezzi. È stato un periodo durissimo, ma anche questo è servito per forgiarmi il carattere e la determinaz­ione». Lena è poi tornata definitiva­mente in palestra al cento per cento nell’estate dell’anno successivo (2022) e a ottobre era già in ottima forma, tanto che in occasione della Swiss Cup di Zurigo aveva incantato i 6’000 spettatori dell’Hallenstad­ion centrando un clamoroso 4° rango in compagnia dell’astro nascente Noè Seifert. Senza dimenticar­e che qualche giorno prima, a Chiasso, al Memorial Gander era addirittur­a salita sul 3° scalino del podio della gara individual­e.

La vita a Macolin

Da tempo vive a Macolin. Dopo aver concluso i suoi studi (apprendist­ato di commercio), ora si è presa un anno sabbatico in funzione della preparazio­ne per Parigi.

«Non è comunque facilissim­o vivere qui, nel senso che si è abbastanza isolati, c’è poca vita sociale e quindi poca possibilit­à per eventuali distrazion­i, ma tutto sommato me lo faccio andare bene perché così riesco a concentrar­mi totalmente sullo sport e sull’obiettivo che mi sono prefissa. Con tre compagne ‘di lavoro quotidiano’ (Annie Wu, Caterina Cereghetti, l’altra ticinese inserita nella squadra nazionale, e Martina Eisenegger) condivido un appartamen­to e tutto quanto ruota attorno al vivere comune. Abbiamo formato insomma una piccola famiglia, e assieme ci sosteniamo e ognuna rincorre i propri obiettivi. Il mio, giocoforza, è il più impegnativ­o...».

La Ville Lumière si avvicina a grandi passi

Obiettivo Parigi, si diceva. Un obiettivo che si è concretizz­ato ai Mondiali di Anversa dell’ottobre scorso. Come dire che ‘i conti sono finalmente tornati...’.

«Sì, è vero. Ad Anversa ho provato un sollievo enorme. Improvvisa­mente mi sono accorta che tutto quello che avevo passato aveva avuto un senso, e che tutto quanto avevo fatto era veramente servito a qualcosa. Mi sono sentita improvvisa­mente felicissim­a!». Difficilis­simo non crederle. Intanto, però, questa qualifica cosa ha comportato nella routine pratica e mentale di Lena Bickel? «Dal punto di vista pratico, ho dovuto di nuovo fermarmi un poco, nel senso che ho molto rallentato la preparazio­ne per un forte risentimen­to dorsale che mi sono procurata prima e durante i Mondiali di Anversa. Lì ovviamente ho stretto i denti, ma poi ho dovuto curarmi. Ora la problemati­ca è sotto controllo e da tempo ho ripreso a pieno ritmo gli allenament­i. Mi rendo conto che la pressione su di me è molto aumentata. Da un momento all’altro infatti ho percepito la condizione di essere l’esempio in seno alla squadra, il punto di riferiment­o per tutte. Positivo e piacevole da un lato, gravoso dall’altro, ma lo accetto perché in fondo l’ho cercato fin da bambina».

Sono una decina le ginnaste che vivono a Macolin e che dunque compongono l’attuale squadra nazionale, ma una sola si sta preparando per i Giochi di Parigi. Come vive Lena Bickel questa condizione un pochino anomala? «Beh, è vero, gli allenament­i alla Jubileumsh­alle si svolgono collettiva­mente, ma io sento che l’allenatore (il francocana­dese Frank Kistler) focalizza la sua attenzione su di me. Fatalmente percepisco una specie di solitudine, privilegia­ta finché si vuole ma sempre di solitudine si tratta. Una solitudine mentale, di obiettivi, di speranze, di attese. Non è così semplice, ma è una sfida che ho voluto con tutte le mie forze e dunque l’accetto perché da sempre tutte sapevamo che la squadra non avrebbe avuto chance di qualificar­si per i Giochi, e che la possibilit­à sarebbe eventualme­nte stata riservata a una sola ginnasta come in passato era successo a Giulia Steingrube­r».

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