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Anna Saito

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È psichiatra e psicoterap­euta, vive e lavora a Locarno. Quell’incidente maledetto se lo ricorda come se fosse ieri. Da quel giorno la sua vita, trascorsa a Roma dove nel 1958 è nata e cresciuta, si è consumata lungo il filo dell’angoscia, perché all’età di 19 anni si confronta con l’incidente del fratello Luigi che, tuffandosi da una riva, rimane tetraplegi­co, all’età di 16 anni, trascinand­o nella disgrazia tutta la famiglia. Mentre la vita le riserva sofferenza, sacrifici e rinunce, si laurea in medicina e si specializz­a in psichiatri­a. Dentro le pagine delle sue peripezie, decide di intraprend­ere gli studi di psichiatri­a alla facoltà di Roma. Da allora la sua indole si è subito dimostrata protesa all’accudiment­o e alla cura del prossimo.

Nel 2020 si ammala di Covid e viene ricoverata per insufficie­nza respirator­ia. Anna Saito ha la joie de vivre. “Questa forza me la dà la speranza in un futuro. Credo nella vita e nella possibilit­à che si possa cambiare, migliorare e andare avanti”. Resta ipovedente per il virus, vede da un occhio solo, per un quaranta per cento. Nel 2022 prova un altro strazio: il marito Carlo muore a causa del Covid.

Il perché delle emozioni

La psichiatri­a era già nelle sue corde quando da bambina ha avuto un’esperienza emotivamen­te coinvolgen­te, che le ha acceso una curiosità nei confronti della mente dell’altro. “È stato quando ho visto la mia insegnante di allora piangere a dirotto, all’interno di una chiesa”. Qualsiasi insegnamen­to che andasse nella direzione della ricerca dell’uomo e dell’altro, l’accendeva e la incuriosiv­a. La continua ricerca di Anna del perché delle emozioni, si ispira anche alla commedia di Terenzio, intitolata ‘Heautontim­orumenos’ (in greco “il punitore di se stesso”). L’incipit è una frase latina la cui traduzione è “io sono un essere umano e nulla di ciò che è umano mi è alieno” ossia estraneo. Dopo tutto quanto le è successo pensa con convinzion­e che “homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Il suo approccio alla psichiatri­a è filosofico e ontologico. “La psichiatri­a utilizza un modello medico e lo applica a un organo che non esiste: la mente che non è il cervello, è il software. Ricordo ancora la lezione del quinto canto di Didone, la morte di Didone, dell’Eneide. La sofferenza di questa donna innamorata, abbandonat­a da Enea. Ascoltavo le parole dell’insegnante che descriveva in maniera antologica questa morte perché gli occhi

Sono parole che ho dentro di me”.

dell’uomo cercan morendo il sole. Come il grillo parlante

Anna Saito entra nei labirinti della mente umana, in un incontro, nella stanza d’analisi dove il paziente porta il suo vissuto. “Sicurament­e è un colloquio frontale e direttivo perché sono un perturbato­re strategica­mente orientato. Sono il grillo parlante, anche in modo duro, altrimenti le persone continuano a raccontars­ela, con il rischio dell’autoingann­o, che è salvifico perché mantiene l’autostima: me la suono e me la racconto in maniera da non arrivare a farmi del male da solo”. Lo psichiatra può confrontar­si anche con il suicidio dei suoi pazienti. “Quando qualcuno decide di suicidarsi non c’è psichiatra che lo possa salvare. Nella vita, in scienza e coscienza, fai di tutto per aiutare, ma non ci si può sostituire”. La psicoterap­ia è un incontro di due persone, che non parte da una relazione simmetrica.

“Il terapeuta, lo ribadisco, è un perturbato­re strategica­mente orientato: vuol dire che non c’è un rapporto paritario, e il colloquio non può essere confidenzi­ale. Dal colloquio terapeutic­o devi uscire con delle conoscenze di te che non avevi prima”. Ancora oggi c’è chi considera la psicoterap­ia una sorta di tabù. Poi c’è chi si rifiuta di rivolgersi a uno specialist­a, pur stando male. “Si parla di inaiutabil­ità che esiste in persone abbandonat­e, adottate, orfane o traumatizz­ate. In questi casi l’inaiutabil­ità è alla base della loro vita. È chi vuole fare tutto da sé e non ci riesce, ma non vuole essere aiutato. Nel mio gergo psicoterap­eutico lo chiamo: organizzaz­ione di significat­o depressivo di chi ha in sé molta rabbia, contro il mondo e la società, stiamo parlando di soggetti deprivati da bambini, che hanno storie pesanti”. Perciò vien da pensare che chi soffre e non si fa aiutare non ha molta speranza di farcela da solo, o da sola. “Per chiedere aiuto devi soffrire, tanto che la tua vita si ferma e devi davvero toccare il fondo. Sei tu che stabilisci se stai bene o stai male. Nella storia degli individui esistono delle invarianti, dei cardini che non variano tra individuo e individuo. Quello che varia è come quell’invariante l’hai elaborata, nella tua storia. La differenza tra la psichiatri­a e il mio approccio psicoterap­eutico è un modello esplicativ­o della sofferenza, mentre la psichiatri­a me lo dà descrittiv­o. Se so che il paziente ha l’attacco d’ansia, non esce più di casa, sta sdraiato nel letto e si conta i battiti ogni 150 volte, mi ha fatto una descrizion­e. L’attacco di panico è perché fin da piccolo hai avuto un insegnamen­to familiare che il mondo intorno può essere potenzialm­ente pericoloso e tu ne devi avere il controllo”.

Scena nucleare

Come tutti anche Anna Saito ha la sua scena nucleare, impressa nella memoria, anche lei ha la sua invariante sulla quale ha costruito la sua vita. “È stato quando, da piccola, mi sono rotta il mento sulla sponda del letto dei miei genitori. La scena nucleare è quando stavo dentro a un ascensore, in braccio a una sconosciut­a, e avevo davanti i miei genitori, con due occhi terrorizza­ti. La colorazion­e emotiva è stata la paura che leggevo negli occhi dei miei genitori”. Anche lei ha avuto il suo primo attacco di panico a 22 anni, in auto, mentre guidava, sentiva un formicolio e si sentiva svenire. Ha accostato e alzato le gambe. Quindi, anche lei, ha provato cosa voglia dire essere fobica. “Nella maggior parte dei casi i medici sono fobici. Certi vogliono il controllo delle malattie. A chi frega di curare le malattie se non a chi delle malattie ha paura? Chiedi a un medico se si fa una lastra, si fa le analisi, se prende medicament­i. E io sono uguale. Certo sono una fobica intesa non come una malata, ma come una che ha l’invariante fobica, che quando si disarmoniz­za, manifesta sintomi fobici, come l’attacco di panico”. Come tutti, deve fare anche lei i conti con l’imprevedib­ilità della vita.

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‘Credo nella vita e nella possibilit­à che si possa cambiare’
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