Lettere ai margini del paese
Oggi alle Giornate letterarie di Soletta, vernissage della rivista svizzera di scambi letterari ‘Viceversa letteratura 18’. Ne pubblichiamo un estratto
Cara Mariuschla,
Un mucchio di bifolchi, su in valle, e nient’altro. È quanto dicono, ma non è sempre vero. Tu, Mariuschla, mia zia di Surval, non sei né contadina né serva, invero sei pastora di montagna.
Cappello di feltro in testa, conti le mucche, stralci numeri dal foglio, scrittura stinta – la tesa gocciola. Vedi gli zoccoli malandati già da lontano, conosci il rimedio per ogni graffio. Il mattino le mammelle – il tuo oroscopo per la giornata. Leggi con le mani i legamenti delle giovenche, sollevi le code e dici ad alta voce: Ci vuole ancora un po’, il vitello si fa attendere. Il tuo viso serio – la tua fronte in pensiero.
Il lupo imperversa nella valle. Preferisci spaccar legna, se il tempo è cattivo, con il primo soffio d’autunno fin nel midollo. La scure impugnata dalle tue manone operose – mani come pale, avrai un giorno. La tua pelle, Mariuschla, è come carta vetrata, ruvida come la lingua del vitello. Un tempo i miei riccioli vi rimanevano impigliati, quando le tue mani solcavano il groviglio della mia criniera. Ho rifiutato la doccia e hai minacciato di raparmi a zero.
Netto e nudo – il taglio primaverile. Sedevo spesso sul tuo braccio quando facevi la spesa alla Migros di Ilanz. Il capo appoggiato alla tua guancia, pollice in bocca, la fronte accaldata, una bimba tutta sudore. Stavo come su un bastimento, alla balaustrata. Badavo ai pericoli insidiosi. Squali, scogli e ondate al bancone della pasticceria. Da lassù ho visto tutto.
Il mio sguardo infantile era annodato stretto – il tuo aveva maglie larghe.
Nella fila davanti alla cassa giravano il capo. Tu, mia zia grande come un macigno, li hai sconfitti tutti e tutte e le tue scarpe hanno lasciato tracce di montagna, sterco di mucca e terriccio sul pavimento bianco.
Sterco e terriccio sul pavimento bianco. La lampada al neon scoppiettava e la cassiera della macelleria ha contato i sette peli sul tuo mento. Il tuo tedesco maldestro, all’osteria, per ottenere un caffè è bastato.
In valle il nostro paese era noto per tre storie strambe: quella del Giachen-Toni, che ha picchiato la vacca allattante con il fucile carico, quella del Pieder Stuorn, Pietro Ciucco, che annotava ogni spicciolo che la sua Lidia spendeva, e la tua, quella di mia zia di Surval.
Un bifolco, dicevano in paese.
Un bue, la Mariuschla da Vadials, Mariuschla dei Vitelli.
Avevo cominciato a vergognarmi di essere la tua figlioccia.
Il paese, me ne frego, dicevi spesso.
Non ci ho mai creduto.
Mariuschla, noce dai mille gusci. Maglietta termica, t-shirt, lana, feltro non li porti solo sulle reni, bensì anche sui sentimenti. Sei aspra come una frasca di salice. Spezzata non ti sei mai, solo piegata. I tuoi occhi d’erba sono di vetro, verdi e scuri e senza lacrime. Stai sempre bene – anche quando stai male.
Quando la neve si rammollisce per il favonio torno da te in cascina. Oggi vengo a trovarti. Busso, aspetto, ti vedo nello stesso angolino in cui ti vedo da anni. Siedi là e leggi, le tue parole più rigide delle tue mani. Zia, dimmi almeno, ti senti sola?
È così, che ci vuoi fare.
Un lupo imperversa nella valle.
Zia, questa poesia è per te:
You tilt your head, the horse leans in.
A breath is sewn into the ground. When you were young, you used to carry a flower behind your ear, the flower of shame. Now you chew the blade of grass.
Chini il capo, il cavallo si affaccia.
Un respiro è cucito nel suolo. Quando eri giovane, portavi un fiore dietro l’orecchio, il fiore della vergogna. Adesso mastichi la lama dell’erba.
Cara Lidia,
Lidia, mia vicina ai tempi dell’infanzia, ancora oggi stai ogni giorno allo sportello della posta. Sollevi i pacchi, affranchi le lettere. Le tue dita nervose strappano i francobolli, mettono il timbro sui nomi e gli indirizzi. Tutto per bene nell’angolo destro, sempre. I prezzi stranieri recitati a memoria, la tua voce ufficiale, il colletto senza una grinza.
Ricordo parecchi mercoledì passati a casa tua, sul divano, a gambe incrociate, guardando la televisione, mangiando patatine. Da KIKA al Sandmann. I tuoi occhi dolci non han mai detto di no.
Pieder non c’era quasi mai.
Casa tua odorava di gatto. Schnurli, Pepi e la Simba, ciascuno con la sua ciotola. Per Pieder e te non ha funzionato con i bambini, perciò i gatti, la televisione e i vicini sul divano. Così dicevano le malelingue.
A me me ne fregava poco.
Lidia allo sportello, sei l’ultima alla posta. L’anno prossimo sarai sostituita da un armadio giallo e una bilancia grigia accanto alla cassa del Volg, nell’angolo. Gentrificazione in paese, non conosci la parola, ma sai che fa male al cuore dover dire addio allo sportello, all’odore dei francobolli, ai nomi di località lontane.
Sei stata la prima adulta che ho visto piangere. Era la sera di un caldo giorno d’estate. Noi bambini giocavamo alle auto con le nostre bici e avevamo disegnato le strade con il gesso sull’asfalto. Ricordo che sei uscita di casa correndo, la mano sulla fronte e gli occhi arrossati. Caduta dalle scale. A quei tempi non sapevo che ciò significasse: il pugno di Pieder.
Non è curioso? Hai taciuto ma tutto il paese ha saputo.
Eppure con te non hanno mai parlato, sempre solo di te e dietro le spalle. Un paese intero che vede, un paese intero che ti ha visto sbiadire a poco a poco allo sportello della posta.
Lidia, sei l’infelicità dal volto di zucchero.
Stai fino alle ginocchia in una palude di tensione e vergogna.
Parli poco e sempre a bassa voce, parole pallide. Lidia, sei così indaffarata da non dover guardare la gente in faccia?
Sei come un cane sulla soglia. Sempre vigile, pronta a scattare.
Oggi vengo a trovarti. Porto una lettera alla posta. Come va? Lo sportello chiude l’anno prossimo. Mi spiace, rispondo, come se servisse a qualcosa. «Per dove?» «Per la Francia». «Ok. 2.80». Il tuo tacere bussa al vetro dello sportello. Il tuo tacere è un lupo senza denti.
Dimmi almeno: stasera ti senti sola?
Lidia, questa poesia è per te:
Fünfzehn Mal hat die Glocke geschlagen, bei zwölf bist du erwacht.
Der kalte Schweiss ist warm geworden.
Deine Wut so gross, wie Berge, hast du versteckt im Nadelkissen, durchbohrt und gut gepflegt.
Quindici volte è rintoccata la campana, al dodici ti sei svegliata.
Il sudore freddo si è riscaldato.
Il tuo furore, come una montagna, l’hai nascosto nel puntaspilli, trafitto e ben curato.
Caro Giachen Antoni,
Sei un ragazzo di quella generazione che d’autunno, sui pascoli, per riscaldarsi i piedi nudi calpestava lo sterco. Sei figlio di quella generazione che scacciava le mucche sdraiate per sedersi sul suolo riscaldato dal loro corpo. Sei uno di quelli che si sono ancora presi il righello del maestro sulle dita, che sono stati sollevati per le orecchie.
Non solo hai dovuto obbedire al maestro, anche con il padre hai dovuto rigar dritto. Quel che diceva contava, quel che faceva era giusto. Eppure tu, ragazzo di tredici anni, hai pensato che quei conti non tornavano. Tredici meno sette fa sei, non cinque. Hai pensato che ci fosse uno sbaglio da qualche parte, che quella storia di obbedienza e autorità non potesse essere la sola verità. Non l’hai mai detto ad alta voce, solo pensato piano, come quando il padre ha scaraventato il piatto ai tuoi piedi con quelle due parole che oggi hai scordato.
Per essere sinceri non le hai scordate. Ti manca solo la memoria. La tua memoria è sbiadita. Un’infanzia a chiazze bianche, un’infanzia coperta di una nebbia grigia, nella dimenticanza.
Giachen Antoni, so che non credi nella terapia, so che stai sempre bene, che è tutto in ordine, non ci si può lamentare, no? Però posso essere sincera con te?
Le chiazze bianche, le lacune hanno il loro motivo. Forse la tua coscienza di bambino è fuggita quando il maestro ha preso il righello. La tua coscienza ha abbandonato il tuo corpicino bambino. Ha abbandonato l’aula. È scesa dalle scale, è uscita. E lì aspettava. Il lupo. Un lupo bruno. Zampe come piatti e occhi più grandi del tuo pugno bambino. Ti ha preso per la nuca, ti ha caricato sul dorso ed è corso su per la valle. Là c’era un sentiero. Un sentiero che conduce a una pianura con fiumi, scisto grigio e muschio secco. Il lupo ti ha lasciato giocare con l’acqua, con la sabbia. Intanto lui stava sdraiato accanto a te, con la testa sulle zampe, un occhio chiuso, un occhio vigile su di te che stavi accoccolato.
Quindi Giachen Antoni, come potresti ricordare, se il più delle volte in passato non eri neppure presente?
Oggi vengo da te in stalla. Vengo a prendere il latte, come un tempo. All’inizio non mi riconosci, sei stizzito, poi annuisci e premi un tasto del computer per la mungitura. Adesso hai un robot. Mica male, rispondo. Il lupo è stato qui la scorsa settimana. Ha sbranato sette delle tue pecore. Bisognerà pur fare qualcosa, prima o poi. Sì, prima o poi bisogna fare qualcosa, borbotto.
È così, che ci vuoi fare.
Dimmi almeno, ti senti solo, stasera?
Giachen Antoni, questa poesia è per te:
Lueg de Berg stat am Wegesrand
Er lauft es Stückli mit
Chum rueh di us, chum leg dich häre
Vergrab dis Gsicht i sine Händ
De schwarzi Schnee fangt jetzt a schmelze Während er stirbt fangsch du a läbe
Guarda, la montagna è al bordo della via Cammina un po’ con te
Vieni, riposati, vieni, sdraiati qui
Affonda il viso nelle sue mani
La neve nera comincia a sciogliersi Mentre muore cominci a vivere
(Traduzione dal romancio di Walter Rosselli)
Asa Hendry (Val Lumnezia, 1999) vive tra Giessen e i Grigioni, dove ha trascorso l’infanzia. Lavora inambito letterario, teatrale e performativo. Ha studiato Gender Studies e studi teatrali a Berna e ha conseguito un Bachelor in studi teatrali applicati a Giessen. Ha vinto più volte il premio letterario Premi Term Bel di Domat/Ems. Per il suo romanzo Sin lautget (Chasa Editura Rumantscha, 2018) ha ricevuto il Premio letterario grigionese. Attualmente nel suo lavoro confluiscono il mondo alpino, l’identità queer e l’animazione 3D.