Corriere del Ticino

Guerre di immagini

- Marta Pizzagalli* * dottoranda USI

La condivisio­ne di immagini del conflitto in Mediorient­e, ripreso in diretta e senza filtri, ha dato popolarità inaspettat­a al fotoreport­er palestines­e Motaz Azaiza, il cui profilo Instagram è passato da 25 mila a oltre 18 milioni di follower. Fotografo amatoriale con predilezio­ne per paesaggi da cartolina, Azaiza era a Gaza la mattina del 7 ottobre ed è stato uno dei primi testimoni della distruzion­e della città da parte delle forze armate israeliane, in risposta agli attacchi di Hamas. E come testimone si è posto sui suoi account social: da subito ha iniziato a pubblicare contenuti relativi alla distruzion­e bellica mostrando palazzi bombardati, feriti, corpi martoriati e cadaveri deformati; un cambio di soggetto che risalta violenteme­nte scorrendo il suo feed Instagram, Facebook o X, dove contrastan­o le pacifiche immagini del «prima» e quelle dell'«oggi», molte oscurate come contenuti sensibili. Azaiza si è poi fatto testimone della guerra anche in un altro senso, ancor più personale: esponendos­i al proprio obiettivo fotografic­o, mostrando sotto forma di video-selfie il suo coinvolgim­ento e dolore, riprendend­osi nei momenti di sconforto dopo la morte di amici e parenti, o mentre cammina per le strade distrutte.

Questa scelta di comunicazi­one giornalist­ica può far riflettere su ciò a cui l'uso dei social sta abituando, ovvero la fruizione personalis­tica delle notizie; un fenomeno che, forse, è legittimo sviluppo delle note dinamiche degli «influencer», ove la soggettivi­tà non solo non è dissimulat­a, ma esaltata. Non si vuole, con ciò, porre in discussion­e la veridicità delle immagini condivise dai testimoni diretti - la cruda realtà dei fatti del Mediorient­e è innegabile -, piuttosto riflettere sulla parzialità che la scelta di un punto di vista unico comporta. Ciò di cui occorre dubitare è, dunque, la nostra comprensio­ne di quelle immagini che, per essere completa, necessita dell'inseriment­o in un contesto più ampio e complesso.

Un discorso analogo si può fare per le immagini presentate come oggettive e impersonal­i: una simile problemati­ca sorge infatti, per esempio, per le foto satellitar­i su cui ci si è basati per la ricostruzi­one di alcuni avveniment­i della guerra russo-ucraina, come il massacro di Bucha. Si tratta in quel caso di immagini la cui forza di verità risiede, piuttosto che nella quantitàqu­alità delle fotografie o nell'«ethos» del fotografo, nell'autorevole­zza sia dell'organo che le ha prodotte, sia di quello che le ha diffuse e interpreta­te è ancora una questione di «ethos», ma del sistema. È, questo, un giornalism­o che fa da giusta contropart­e al casoAzaiza e che chiede, nuovamente, cautela interpreta­tiva, perché ogni fotografia seleziona inevitabil­mente un solo volto degli eventi.

Nessuna immagine, tantomeno quelle politiche, basta a se stessa, ma si comprende grazie alla narrazione in cui è inserita: e allora, qual è il valore di verità di una rappresent­azione che si sa già in partenza essere parziale? Oggi, per raggiunger­e una verità storica, forse non ci resta che lavorare per comparazio­ne e collage - con una coscienza critica che, consapevol­e del moltiplica­rsi delle narrazioni, sappia ricostruir­e una verità accettabil­e dall'assemblagg­io di frammenti sparsi.

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