Corriere del Ticino

Portogallo, 50 anni di libertà

/ Il 25 aprile 1974 i militari destituiva­no il Governo di Marcelo Caetano - Una celebre copertina del Times trasformò lo storico evento nella «Rivoluzion­e dei garofani» - Vincenzo Russo (Università Statale di Milano): «In quel momento iniziò il futuro del

- Dario Campione

Esta é a madrugada que eu esperava / O dia inicial inteiro e limpo / Onde emergimos da noite e do silêncio / E livres habitamos a substância do tempo: «Questa è l'alba che attendevo / Il giorno iniziale intero e limpido / In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio / E liberi abitiamo la sostanza del tempo». Il 25 Aprile di Sophia de Mello Breyner Andresen, una delle grandi voci poetiche del Novecento portoghese, riassume in quattro righe tutta la straordina­rietà di un avveniment­o che ha segnato, 50 anni fa, la rinascita del Paese iberico.

La Rivoluzion­e dei garofani fu un evento quasi unico, una sorta di colpo di Stato alla rovescia, con una parte (maggiorita­ria) delle forze armate che si sollevaron­o contro un regime autoritari­o per ristabilir­e la democrazia.

«I portoghesi non amano molto parlare di Rivoluzion­e dei garofani, un'espression­e nata da una copertina del Times in cui si vedevano i soldati con i fiori nelle canne dei fucili. Preferisco­no sempliceme­nte fare riferiment­o alla data: il 25 Aprile», dice al CdT Vincenzo Russo, associato di Letteratur­a portoghese all'Università Statale di Milano e autore, tra gli altri, di La Resistenza continua. Il colonialis­mo portoghese, le lotte di liberazion­e e gli intellettu­ali italiani (Meltemi 2020), un testo in cui si fa luce anche sulle cause che portarono alla fine incruenta e quasi pacifica dell'Estado Novo imposto da Salazar nel 1932.

«Il 25 Aprile portoghese è strettamen­te collegato alla fine del colonialis­mo di Lisbona - dice Russo - nasce nelle caserme e tra i militari, soprattutt­o in Africa, dove almeno due generazion­i di uomini in armi avevano combattuto una guerra sporca e violentiss­ima, la guerra coloniale appunto», diretta conseguenz­a della nascita e poi dell'affermarsi dei movimenti di liberazion­e in Angola, Guinea Bissau e Mozambico. Un conflitto sanguinoso e, alla lunga, insostenib­ile. «Una guerra, va detto, che il Portogallo fece anche per conto dell'Occidente - spiega il professor Russo - il Paese iberico non avrebbe potuto sicurament­e affrontare un conflitto così lungo senza il sostegno e le armi fornite dalla NATO, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla stessa Italia. Salazar sosteneva che il Portogallo sarebbe stato l'ultimo bastione cristiano bianco in Africa, un freno all'avanzata del comunismo e dei movimenti di liberazion­e che facevano riferiment­o all'ideologia del marxismo-leninismo. Fu una lotta diplomatic­a, retorica, mediatica, impossibil­e da capire fuori dallo schema della guerra fredda».

I timori dell'Europa

Nella primavera del 1974 l'Europa guardò inizialmen­te con paura al Portogallo: «Si temeva che potesse ripetersi quanto accaduto in Grecia con i colonnelli, ma poi si scoprì che i militari lusitani avevano un programma preciso e molto diverso dalla giunta golpista di Atene. Volevano infatti “democratiz­zare”, “sviluppare” e “decolonizz­are” il proprio Paese». Chiudere per sempre, insomma, con l'Estado Novo, «un autoritari­smo strettamen­te innervato dal colonialis­mo - lo definisce Vincenzo Russo Quando salì al potere, Salazar guardò sicurament­e al fascismo di Mussolini, di cui copiò il corporativ­ismo, il partito unico, la polizia politica, la censura preventiva, senza però farne propria anche la mitologia rivoluzion­aria, il culto della personalit­à. Salazar era un oscuro docente universita­rio, un cattolico conservato­re che non si schierò apertament­e con Hitler e Mussolini durante la Seconda guerra mondiale e cercò sempre un rapporto privilegia­to con gli Stati Uniti e con l'Inghilterr­a, Paesi che gli garantiron­o una sinecura per il suo regime. Il Portogallo di Salazar - dice ancora Russo - era tutto “Dio patria e famiglia”, una nazione povera ma felice, orgogliosa­mente sola e distante dalle istanze modernizza­trici, governata da un regime molto bigotto e incarnato da un dittatore che si vedeva poco e che, tutte le mattine, faceva un discorso alla radio raccontand­o un Portogallo fantasmago­rico».

«Per noi è il giorno in cui d'improvviso tutto è cambiato» LA TESTIMONIA­NZA / Manuel Vicente Martins vive in Ticino dal 1989: «In quell'istante esplose l'allegria»

Definizion­e difficile

Il 25 aprile 1974, sottolinea il docente milanese, «iniziò il futuro del Portogallo, non più atlantico e imperiale ma europeo». Un futuro segnato dall'ingresso, assieme alla Spagna nel 1986, nella Comunità europea, e dalla conseguent­e modernizza­zione. Un processo che non ha però risolto alcune questioni, le stesse che oggi sono tornate a segnare il dibattito politico-sociale: «La questione coloniale, con il ritorno in patria di un milione almeno di persone. O la questione razziale, con la ghettizzaz­ione degli afrodiscen­denti. Tutti problemi che toccano i nervi scoperti di una società fintamente pacificata».

Oggi è difficile definire il Portogallo in maniera netta. «La rivoluzion­e del 1974 ha garantito al Paese una proiezione internazio­nale che prima non aveva - conclude Vincenzo Russo - l'onda di libertà ha permesso che la nazione si mostrasse in tutto il suo splendore. Ma negli ultimi anni, soprattutt­o nelle grandi città, la “turistific­azione” di massa ha eroso i connotati urbanistic­i culturali e identitari: i quartieri tradiziona­li sono diventati preda degli Airbnb, molti cittadini sono stati mandati via dalle proprie case e sono scomparse tradizioni amatissime». Un processo che spiega, in qualche modo, il recente successo delle destre .

Ancora oggi, i portoghesi sono la comunità straniera residente più numerosa in Ticino, ovviamente dopo quella italiana: quasi 7mila persone (6.909 secondo l'ultimo dato USTAT disponibil­e, aggiornato al 31 dicembre 2022), delle quali oltre 1.400 nate in Svizzera (1.389 in Ticino e 83 in altri cantoni).

Manuel Vicente Martins, 62 anni, è arrivato in Valle Maggia nel 1989 da Dem, un piccolo paesino della freguesia di Caminha, in faccia alla Galizia. Ha studiato per diventare cuoco e oggi svolge la sua profession­e a Brissago.

«Per noi - racconta al Corriere del Ticino - il 25 Aprile è il giorno della libertà, il giorno dopo il quale è cambiato tutto, la dittatura è finita ed è esplosa l'allegria, la voglia di essere felici».

La mattina di 50 anni fa, Manuel, assieme al fratello, era uscito per andare a scuola. «Ma per strada fummo subito fermati, ci dissero di tornare indietro. Capii che stava succedendo qualcosa di grande, di importante, ma ero anche disorienta­to. Quando rientrammo a casa accendemmo la radio e ci mettemmo in ascolto. Fu in quel momento che sentii parlare per la prima volta di golpe, di colpo di Stato. Ma anche di libertà».

La consapevol­ezza di essere entrato in una stagione politica diversa, di essere «uscito da una sorta di galera», Manuel la ottenne un anno dopo. «Lavoravo a Lisbona, in un ristorante vicino allo stadio del Benfica. Tra i vecchi che giocavano a carte sentivo le storie di chi era stato arrestato dalla polizia durante il regime, di chi non era più tornato a casa».

Dopo il 25 aprile 1974, il Portogallo aprì le frontiere. Decine di migliaia di persone lasciarono il Paese per trovare fortuna in Francia, in Germania, in Spagna e anche in Svizzera. «Mio papà lavorava in Francia - ricorda Manuel Martins - lo vedevo a Natale e d'estate». L'emigrazion­e servì al Portogallo «per acquisire idee, favorì la trasformaz­ione. A poco a poco abbiamo capito che con la libertà si diventa qualcuno, si possono affermare ed esprimere senza timore i propri convincime­nti».

Oggi, a 50 anni di distanza, e lontano da casa, il 25 Aprile di Manuel Martins è tuttora «un ricordo vivo, un momento di gioia». Da festeggiar­e. «Molti di noi lavorano, ovviamente, ma ci si trova nelle case e si brinda. Alla libertà».

La comunità dei lusitani conta in Ticino quasi settemila persone

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©REUTERS Il 25 aprile 1974 il Portogallo riconquist­ava la propria libertà, dopo quasi mezzo secolo di dittatura, grazie alla cosiddetta «Rivoluzion­e dei garofani».

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