V il mensile di critica videoludica
Gentaglia e gioconi dei postacci arcade
Siamo giunti nella seconda metà degli Anni ‘80, quando la rinascita della videoludica domestica era partita da Oriente, e la Nintendo aveva saldamente conquistato le case delle famiglie dei veri baby-boomers ormai divenuti affettuosi genitori. E nel frattempo, come se la passavano i ragazzacci delle sale giochi? Sempre in Giappone, quei fumosi ambienti un po’ loschi in effetti non avevano mai conosciuto nessuna vera crisi, diventando anzi i luoghi di ritrovo di tutta una tribù di entusiasti informatici già più cresciutelli e scafati rispetto ai bimbi amanti dei sempre più morbidosi Super Mario, Kirby, Principessa Zelda e impavido Link. Parliamo di adolescenti o giovinastri che in casa si dilettavano magari dei complessi home computer, oppure console più graffianti e tecnologiche dei rassicuranti prodotti Nintendo, ossia un sottobosco di fanatici che per trovare la vera avanguardia del settore non potevano che recarsi, e con entusiasmo, nei locali arcade, a imbucare monetine in cabinati che per mole e costi erano del tutto improponibili agli ambienti domestici privati. Certo, anche in sala giochi la grafica e il sonoro dei più avanzati videogame oggi apparirebbe ancora un po’ rozza, eppure grazie al rampante progresso tecnologico l’artwork di ogni nuovo prodotto continuava a evolversi forsennatamente: titoli come PAC-LAND (NAMCO, 1984), o WONDER BOY (SEGA, 1986) mostravano chiaramente come l’evoluzione sia estetica che funzionale dei videogiochi arcade consentiva ormai livelli di rappresentazione già scollata dal puro simbolismo astrattivo di un tempo, fautrice di esperienze interattive e immersive in mondi fantastici sempre più riccamente connotati a livello di personaggi, ambientazioni e quindi narrazioni. D’altro canto, se come abbiamo visto persino la videoludica domestica reclamava ormai un aspetto già affine al design più raffinato (ma bambinesco) dei cartoni animati, per contro il settore arcade guardava analogamente ai più “realistici” mondi dell’intrattenimento “adulto”, come il cinema e lo sport. A titolo di esempio, si ricorda che già nel 1983 debuttava in sala giochi per l’azienda Konami la “saga” di Hyper Olympics, dove con la scusa degli imminenti giochi olimpici di Los Angeles ‘84, e grazie a quella grafica un po’ meno scarna rispetto agli anni precedenti (invero i baffoni di Mario messi ovunque per caratterizzare gli atleti sembrano perfetti per rappresentare la mascolinità dell’epoca, un po’ à la Tom Selleck, o Carl Weathers), i giocatori si sentivano protagonisti di un grande evento di competizione sportiva reale e internazionale. Nel 1984 è anche la volta Karatedou (Technōs Japan), poi l’anno subito seguente quella di Yie Ar Kung-fu (Konami), due capostipiti del genere di combattimento “a incontri”, a metà tra gli sport di lotta e le pittoresche arti marziali tipiche di un certo cinema soprattutto di Hong-kong. Nel 1985 vede altresì la luce (o l’ombra?) anche il presto osannato Makaimura della CAPCOM, capostipite di una fortunata serie ispirata alle atmosfere dei film horror e alle case dei fantasmi tipiche dei parchi dei divertimenti, così in voga in quegli stessi anni, tant’è proprio il genere “di avventura” – sempre suggestionato dal cinema americano – si aggiudicò un crescente spazio nelle sale giochi nipponiche, come dimostra persino la versione arcade del classico occidentale Pitfall!, reinterpreta nel 1985 dalla SEGA in una variopinta chiave assai simile alle peripezie archeologiche di Indiana Jones. Gli esempi affini ai suddetti sarebbero davvero innumerevoli, taluni eventualmente lambiti di certi pruriti un po’ violenti o persino osè, ma del resto la palese tendenza lasciava davvero poco di cui sorprendersi:
gli adolescenti ottantini volevano sentirsi “grandi” e “moderni”, affacciandosi alle tante microsocietà subculturali di un’epoca ferocemente consumistica e così ricca di avanguardie del divertimento. La musica americana, le esagerazioni hollywoodiane, la fantascienza ancora in ogni dove, il boom delle arti marziali, le spericolate corse automobilistiche, persino l’epica dei teppisti ribelli con i loro roboanti combattimenti da strada, l’eredità invero sempre più plastificata dell’allora ancora recente controcultura settantina: il cocktail di sollazzo continuo e diffuso era servito, in un clima di opulenza generale che a ben vedere era in realtà già escapista e sedativo. In Giappone si era all’apice dell’economia-bolla, di cui le sale giochi erano dei sonanti e luccicanti templi che pulsavano sottotraccia. Chi scrive trova tuttavia essenziale rimarcare che a dispetto di tutte le citate influenze stilistiche, i videogiochi del tempo mantenevano – anche nell’avanguardia arcade – un mirabile bilanciamento tra le loro componenti di sfida interattiva ed estetica narrativa: “prendere il controllo del carismatico protagonista di una storia avvincente e condurla a termine con abilità muovendosi in contesto esaltanti”, la linea evolutiva del settore era ormai chiara, ma appariva ancora in equilibrio, per una sempre più godibile finzione interattiva. Come perfetto esempio paradigmatico, l’aggressiva software house IREM aveva rilasciato ancora nel 1984 un videogioco da sala destinato a fare molta più storia di quanto si sarebbe mai immaginato alla sua uscita. Si trattava di un “picchiaduro a scorrimento laterale” intitolato SPARTAN X, proprio come un omonimo e coevo film con Jackie Chan, di cui il gioco si spacciava come trasposizione videoludica. Tuttavia, a parte il titolo e i nomi dei protagonisti Thomas e Sylvia, i due prodotti non condividevano null’altro che un tentativo di opportunismo pubblicitario. In realtà, il videogame era palesemente ispirato a tutt’altra e ben più iconica pellicola di arti marziarli, uscita sei anni prima e intitolata Shibouyuugi, ossia ‘gioco mortale’, diventata storica come l’ultimo e più ambizioso progetto del grandioso Bruce Lee. Ma che la matrice filmica fosse l’una o l’altra, restava palese l’ambizione dell’autore del gioco, il giovane Nishiyama Takashi: creare un’esperienza interattiva davvero coinvolgente come quella di una visione cinematografica, pur in un videogioco d’azione, di combattimento. Il successo di questa visione fu esplosiva tanto in Giappone quanto in Occidente, prima nelle sala giochi e poi anche con le trasposizione domestiche (quella per Il Famicom fu curata internamente per la Nintendo direttamente da Miyamoto Shigeru), al punto che SPARTAN X viene oggi considerato come un caposaldo del suo genere. Qui però ci interessa soprattutto ricordare il suo curioso ma eloquente slogan promozionale: “l’eccitazione supercorazzata si fa videogioco”. Ordunque: Nishiyama Takashi, “supercorazzato”... tenete bene a mente questo nome e quello strambo epiteto, perché dal nostro prossimo appuntamento si riveleranno gli araldi di una rivoluzione che terrà banco per molte ‘colonne’ a venire.
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