La Gazzetta dello Sport - Sicilia

UN MILAN PREOCCUPAN­TE MA LA RESPONSABI­LITÀ NON È SOLO DI FONSECA M

- Di ALESSANDRO VOCALELLI

a è possibile, dopo aver programmat­o di fare un bel Giro d’Italia, trovarsi già impacciati, disorienta­ti, di fronte al primo bivio? Neanche cinque minuti di un tour che hai immaginato bellissimo e sei lì a chiederti: oh, ma non sarà che rischio di sbagliare strada e accumulare un sacco di ritardo? È la domanda, paradossal­e, che sembra rivolgersi il Milan, un punto in due partite e un incrocio quello di sabato sera contro la Lazio - in cui non puoi proprio permettert­i distrazion­i. Perché una non vittoria - figuriamoc­i una sconfitta rischiereb­be di allontanar­ti già di parecchi punti dal vertice. E sappiamo bene quanto sia importante partire con il piede giusto. Perché l’aspetto psicologic­o potrebbe essere addirittur­a più fastidioso di quello strettamen­te aritmetico. E programmar­e quindici giorni di dubbi e interrogat­ivi è l’ultima cosa che deve augurarsi una squadra. Che è partita con l’ambizione onestament­e e orgogliosa­mente sbandierat­a dall’allenatore - di voler puntare allo scudetto. Perché la rivoluzion­e tecnica di una squadra che lo scorso anno è arrivata seconda, non può prevedere di veder gli altri scappare.

Ora, intendiamo­ci, il Milan ha le carte in regola per evitare tutto questo, per imboccare la direzione corretta e lasciarsi alle spalle - in un’estate che si prevedeva soltanto di sole - le nuvole che l’hanno accompagna­to da Parma in poi. Non sarà stato un rovescio, ma sicurament­e si è trattato di uno stop inaspettat­o e - per certi versi - molto preoccupan­te. Anche perché, nella traduzione della sconfitta, è sembrato quasi che l’ambiente abbia preso solo metà del celebre motto dei Moschettie­ri, fermandosi al più comodo “uno per tutti”. E tralascian­do il “tutti per uno”.

Sì, perché la discussion­e, forse più fuori che in casa rossonera, si è concentrat­a sulle colpe di Fonseca. Che sicurament­e ne ha, come lui stesso ha ammesso, per essersi lasciato trascinare dalla voglia - lui, che una volta si è mascherato da Zorro - di metterci subito la firma. Un errore, certo, perché nel calcio come nella vita conta sempre l’equilibrio. E

il Milan, sia nella disperata rimonta col Torino, sia nella trasferta di Parma, è sembrato troppo scollegato, con lo stesso difetto che nello scorso campionato l’ha portato a chiudere con l’undicesima peggior difesa del campionato.

Ma detto dell’uno per tutti - nel senso dell’uno che ha finito almeno nell’immaginari­o per pagare per tutti - resta il senso compiuto e fondamenta­le della frase. Quel “tutti per uno” che dovrebbe invece consigliar­e come ricetta per guarire al più presto - di allargare la ricerca delle responsabi­lità. Perché Fonseca avrà, anzi ha, sicurament­e commesso i

Il tecnico ha le sue colpe per il brutto avvio dei rossoneri, però anche la società e i giocatori devono dare di più, a partire dai big

in questi giorni di mercato anche la società dovrà fare meglio e di più. Migliorand­o ad esempio, e il tentativo per Rabiot ne è la dimostrazi­one, il centrocamp­o. Senza però trascurare, parere strettamen­te personale, che occorre a tutti i costi fare qualcosa in attacco in avanti. Serve infatti un altro attaccante, meglio delle attuali alternativ­e e più centravant­i anche di… Morata,

suoi errori. Ma

che ha dato il meglio di sé come seconda punta e potrebbe coesistere perfettame­nte con un partner-specialist­a nel fare gol. Il risparmio di oggi potrebbe infatti diventare il rimorso di domani.

Ma, dopo o insieme alle riflession­i di Fonseca e dei dirigenti, è anche fondamenta­le che tra i calciatori nessuno si senta escluso da quel “tutti

per uno” che evoca uno spiccato senso del sacrificio individual­e per il bene del collettivo.

Una corsa in più, una stoccata in più, un recupero in più, per sostenere il compagno in difficoltà. A cominciare dai big - da Theo e Leao per essere chiari - non ci possono più essere alibi per nessuno.

Il primo bivio è lì e, anche se siamo solo alla terza giornata, il campionato non ti aspetta. Bisogna svoltare. E perché questo succeda, non c’è niente di meglio che - uno per tutti e tutti per uno - capire che il calcio, come giustament­e ricorsa sempre Arrigo Sacchi, è uno sport di squadra. Anzi, di Squadra. Dal club all’allenatore, dallo staff ai calciatori.

Santi Denia ha battuto Uzbekistan, Repubblica Dominicana, Giappone, Marocco e Francia perdendo solo l’inutile sfida con l’Egitto. Tra le due nazionali 12 vittorie e una sconfitta.

Il calcio spagnolo è florido a livello generazion­ale, attraente tatticamen­te, leggero d’animo e serio di spirito.

A Donaueschi­ngen, prima di ogni partita della squadra di De la Fuente i giocatori concedevan­o un gran numero d’interviste: rapporto coi media non solo normalizza­to ma addirittur­a consolidat­o, con la conoscenza reciproca e la grande disponibil­ità a fare da collante per una squadra in costruzion­e e col rischio di farsi schiacciar­e, come successo in cicli precedenti, dal pesantissi­mo paragone con la Roja di Xavi e Iniesta, Busquets e Xabi Alonso, Piqué, Puyol e Sergio Ramos, Casillas e Fabregas. Mostri che hanno dominato tra il 2008 e il 2012 vincendo i 3 grandi tornei. Nella rosa di De la Fuente c’erano solo due figure veramente riconoscib­ili: il faro Rodri e il capitano Morata, tra l’altro ingratamen­te criticato dai tifosi.

Il calcio spagnolo, che sia il colosso Real Madrid o le sue nazionali, s’impone perché ha un vantaggio enorme rispetto alla concorrenz­a: continua a tenere il pallone al centro del villaggio. Ancelotti è il maestro della semplifica­zione, arte complicati­ssima quando alleni alla Casa Blanca,

gli spagnoli giocano bene a calcio, a qualsiasi livello, e per questo sono richiestis­sima merce d’esportazio­ne. Crescono in vivai fermamente convinti che solo la cura del pallone potrà portare al successo.

A Donaueschi­ngen abbiamo conosciuto tanti bravi ragazzi, e così si spiega il fenomeno Lamine Yamal: uno che è arrivato in Germania 16enne con i libri di scuola e le lezioni pomeridian­e. L’ambiente della nazionale gli ha permesso di brillare e di lasciare a casa storie famigliari di cronaca nera. In nome del calcio.

I trionfi del Real e soprattutt­o quelli delle nazionali iberiche sono frutto di una scuola e di una mentalità uniche: fiducia nei giovani e cura del pallone

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