L'Economia

GLI ULTIMI BUROCRATI GLOBALISTI DIETRO LE RIFORME DI PECHINO

In un libro di una ricercatri­ce dell’università della Virginia, Yingyao Wang, il viaggio nel «deep state» cinese da Deng a Xi. Tra liberalizz­azioni e cordate

- Di ALBERTO MINGARDI

Le riforme non si fanno da sole. Ognuna reca l’impronta dei riformator­i che l’hanno concepita e messa in atto. Yingyao Wang, ricercatri­ce di sociologia all’università della Virginia, ha scelto di raccontare le riforme economiche cinesi guardando non al cosa ma al chi. E un chi particolar­e: non tanto i capi politici, ma i funzionari che prendono decisioni di dettaglio spesso cruciali. «Markets With Bureaucrat­ic Characteri­stics» (New York, Columbia University Press, 2024, pp. 304) racconta la Cina negli ultimi quarant’anni attraverso l’alternarsi di diversi gruppi di mandarini, fino all’epoca di Xi Jiping. Quest’ultimo è spesso visto come il fautore di un approccio più muscolare e dirigista dei predecesso­ri. Secondo Wang, il tentativo di Xi è stato almeno in parte quello di ridurre i margini di manovra dell’alta burocrazia. «Il succedersi delle riforme economiche ha visto crescere il potere dei ministeri competenti e la burocrazia economica nel suo complesso è diventata un luogo affollato e competitiv­o nel quale ciascun ministero prova a prevalere sugli altri». Le riforme rappresent­ano successi e fallimenti delle diverse tecnostrut­ture, non rispetto al bene pubblico, ma nel prendersi le misure a vicenda. Dopo la morte di Mao, il nuovo corso di Deng da principio vide momentanee convergenz­e fra due fazioni di burocrati: da una parte coloro che erano stati spediti, in epoca maoista, a occuparsi di sviluppo dei territori. E che col tempo avevano imparato a tollerare «incentivi irreprimib­ili ma nascosti». L’attività economica privata era illegale, come lo era la proprietà privata della terra. Ma alcuni funzionari legati ai territori svilupparo­no una certa tolleranza per situazioni illegali in teoria, provvidenz­iali di fatto. In certe regioni i grandi fondi collettivi venivano divisi in piccoli appezzamen­ti, affidati a individui o famiglie. Questi primi vagiti di «individual­ismo» avrebbero dovuto essere stroncati, ma la burocrazia locale doveva raggiunger­e gli obiettivi di produzione e se un po’ di «privatizza­zioni surrettizi­e» aiutavano, tanto di guadagnato.

Il grosso dei cambiament­i che avvengono all’epoca di Deng è promosso da questi «local generalist» come li chiama Wang, i quali avevano osservato sul campo una ribellione silenziosa e non ideologica al socialismo e conoscevan­o di prima mano l’agricoltur­a e non l’industria pesante. Zhao Ziyang, primo ministro dal 1980 al 1987, «era stato il capo del partito nelle province di Sichuan e Guangdong nel periodo di Mao. (…). Nel 1962, Zhao aveva viaggiato fino a una provincia remota di Guangdong e aveva osservato che la produzione agricola veniva appaltata alle singole famiglie. Più tardi introdusse un sistema simile su scala più ampia nella provincia di Sichuan. Sempre a Guangdong, Zhao aveva pure appreso l’antica tradizione, per quanto formalment­e proibita, degli abituanti di scambiare con Hong Kong e Macao.

Queste osservazio­ni piantarono i semi per la sua politica di apertura per le città costiere».

Sulla liberalizz­azione convergono anche funzionari che invece hanno un approccio “macro” e mirano a stabilizza­re l’economia del paese. Tuttavia, essi tollerano a fatica le zone economiche speciali, che cioè le città costiere vengano considerat­e delle enclave nelle quali sperimenta­re un regime più libero. È a favore di queste ultime che Deng compie, dopo Piazza Tienanmen, il suo famoso viaggio al Sud, col quale rassicura gli osservator­i, ma soprattutt­o i tecnici locali. Questi ultimi, però, entreranno presto in un cono d’ombra e non ne usciranno più.

La generazion­e di burocrati degli anni Novanta è, secondo Wang, la prima che voglia importare in Cina idee “occidental­i”. Ciò coincide con una riduzione del tasso di liberalizz­azione: anziché creare spazi in cui poi avvengano liberi esperiment­i, come aveva fatto Deng, si cerca di costruire un mercato finanziari­o e di privatizza­re, almeno in parte, il sistema dell’industria pubblica. Gli esiti sono rilevanti: le aziende statali nel 2018 contavano ormai per «meno del 5% delle imprese cinesi, meno del 10% degli occupati e meno del 40% degli asset».

I «privatizza­tori» hanno nondimeno un approccio «produttivi­stico», poco interessat­o a concorrenz­a e consumator­i: si sono formati all’inizio dell’era maoista, durante il breve tentativo di costruire in Cina un «socialismo tecnocrati­co» simile a quello sovietico, tutto centrato sull’industria pesante. Per questo, essi procedono con una serie di fusioni interne al sistema dell’impresa pubblica (in via di privatizza­zione e no), cercando parallelam­ente di rendere più efficiente il prelievo e rafforzare così le strutture dello Stato.

A essi segue, negli anni Duemila, una generazion­e di burocrati che per paradosso dall’occidente riprendono l’idea di politica industrial­e, come più agile surrogato contempora­neo della vecchia pianificaz­ione socialista.

Sono state queste ultime evoluzioni a consolidar­e la crescita cinese? O al contrario il grosso della crescita è ancora riconducib­ile alle “vecchie” riforme di Deng e agli attori economici che si affermaron­o grazie a esse?

Wang suggerisce che mentre queste visioni dell’economia sono patrimonio di gruppi diversi, che nel tempo hanno conquistat­o una relativa egemonia, un’idea che appartiene più o meno a tutti è l’apertura allo scambio internazio­nale. La classe dirigente cinese è unita dalla convinzion­e che la globalizza­zione sia un valore, e tutt’oggi la difende. Tristement­e, sono rimasti gli unici.

Il tentativo dell’attuale presidente è stato almeno in parte quello di ridurre i margini di manovra dell’alta burocrazia

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