Protezionismo e chiusure: la ricetta sbagliata che danneggia la crescita (e noi tutti)
La Germania che chiude le frontiere. Le campagne elettorali che si giocano su quanto e su come difendere le proprie economie. La retromarcia su globalizzazione e commercio mondiale. Sono queste le nuove e pericolose tendenze da combattere. I sintomi del disagio, e del malessere, sono evidenti, ma il rimedio della chiusura rischia di essere una scorciatoia dannosa soprattutto per quanti ne sono affascinati. La crescita dell’occidente è sicuramente figlia della globalizzazione. E tra il 1995, quando nacque la World trade organization (Wto, Organizzazione mondiale per il commercio), e lo scorso anno, anche il reddito pro capite nei paesi meno sviluppati è quasi triplicato. Eppure, sia nei paesi ricchi che in quelli emergenti, si è fatta strada l’idea che molto del disagio dipenda dalla globalizzazione. Una sorta di paradosso nel quale da un lato una redistribuzione del reddito poco efficace (nei Paesi occidentali) e, dall’altro, il risentimento per la crescita della parte del mondo ricco a scapito di quella meno sviluppata, sta facendo sì che la reazione sia l’innalzamento di barriere commerciali. Secondo il Global Trade Alert continua l’emanazione di provvedimenti che ostacolano gli scambi. Solo tra il 2021 e il 2023 sono stati quasi 1.600 i provvedimenti restrittivi varati dalle varie nazioni. Con effetti negativi per gli stessi Paesi che li hanno promulgati. I due milioni di impieghi persi negli Usa da quando nel 2001 la Cina si è unita al Wto, non hanno spinto a maggiori efficienze. Hanno determinato, invece, che anche il presidente Usa Joe Biden proseguisse sui dazi la strada di Trump. Se si dovesse procedere a un’imposizione di tariffe doganali del 10% su tutti i beni importati (come ha proposto sempre Trump se venisse rieletto), il Peterson Institute di Brooklyn ha calcolato che questa misura costerebbe 1.700 dollari a ogni famiglia Usa. In queste condizioni il commercio mondiale ristagnerà con aumenti tra l’1 e il 3%. Per un Paese esportatore come il nostro, che nei primi sei mesi, secondo i dati Sace, ha visto una riduzione dell’export dell’1,1%, l’avanzata del protezionismo è quanto di peggio ci si possa augurare.