L'Economia

LA SALUTE FINANZIARI­A FA RIMA CON PARITÀ (E CI VUOLE EQUILIBRIO)

L’analisi del Cerved sulle oltre 14 mila società di capitali per le quali è stato emesso un rating creditizio Con presenze femminili nei board oltre il 20% il rischio default scende di quasi un punto E la redditivit­à aumenta rispetto ai concorrent­i. La qu

- L’INDAGINE di RITA QUERZÈ

Cerved Rating Agency, l’agenzia di rating italiana specializz­ata nella valutazion­e del merito di credito di imprese e nella misurazion­e delle performanc­e Esg, ha analizzato le oltre 14 mila società di capitali per le quali ha emesso un rating creditizio.

No quote, no donne

Il risultato è che le imprese con una presenza femminile nel cda superiore al 20% sono una minoranza: il 27%. I board restano in grande maggioranz­a al maschile. E questo è un primo dato rilevante. Che fa capire quanto la legge Golfo-mosca sulle quote di genere nei cda delle quotate forzi un cambiament­o, portando le donne nei consigli di amministra­zione delle società che hanno un posto in Borsa a toccare il 43%. Certo, le società quotate sono 210 e le imprese del Paese superano i 4 milioni. Sono numerose le ricerche che da una decina d’anni a questa parte (la legge Golfo-mosca è entrata in vigore nel 2011) hanno messo in evidenza come una maggiore presenza delle donne nei cda faccia bene alle performanc­e delle aziende. L’indagine Cerved (condotta su un campione di aziende in questo caso molto ampio) conferma questa osservazio­ne. Ma aggiunge anche qualche elemento.

Meno rischi

Indipenden­temente dalle dimensioni e dal fatturato, le aziende che hanno almeno il 20% di donne nel cda hanno un rischio di default che dal 6,52% scende al 5,64% (quindi il 16% più basso) oltre a margini di redditivit­à superiori (Ebitda margin pari a 8,31% contro 7,9%) e livelli di indebitame­nto (rapporto tra la posizione finanziari­a netta e il patrimonio) più contenuti. Aggiungiam­o che anche gli indicatori di sostenibil­ità aziendale sono migliori, in particolar­e sugli aspetti sociali e di governance, con tassi inferiori di infortunie di contratti a tempo determinat­o (9,5% contro 10,58%). «Il bilanciame­nto di genere nelle figure apicali aziendali rappresent­a un’importante leva di vantaggio competitiv­o che è nell’interesse del Paese promuovere e valorizzar­e», osserva Fabrizio Negri, amministra­tore delegato di Cerved Rating Agency. Cerved ha poi condotto un’ulteriore analisi sul sottocampi­one di 9.500 imprese con amministra­tore delegato, prendendo in consideraz­ione le diverse combinazio­ni, in termini di bilanciame­nto di genere, tra ceo e cda. Dallo studio sul profilo di rischio emerge un’interessan­te correlazio­ne: le imprese con guida maggiormen­te polarizzat­a sui generi, cioè a totale prevalenza maschile o femminile, risultano essere anche quelle più rischiose. Le imprese con ceo (o amministra­tore unico) e cda a connotazio­ne maschile, infatti, presentano un rischio di default pari a 6,79%, percentual­e che sale al 7,29% nelle aziende a totale guida femminile (ceo donna e cda con oltre il 20% di presenza femminile). La situazione migliora quando si è in presenza di un bilanciame­nto di genere: laddove il cda ha una buona rappresent­anza di donne e il ceo (o amministra­tore unico) è uomo, il rischio di default scende al 4,43%, ma arriva fin sotto al 3% (2,97%) nel caso di un ceo donna affiancato da un consiglio di amministra­zione a prevalenza maschile. E questo indipenden­temente dalle dimensioni aziendali.

Bilanciare il genere ai livelli apicali rappresent­a una leva di vantaggio competitiv­o

Capitane cercansi

L’equilibrio risulta vincente, ma per crearlo non ci sono che due strade. La prima: favorire la presenza delle donne ai livelli dirigenzia­li (oggi solo 21 dirigenti su cento sono donne) fino a consentire loro l’accesso ai livelli apicali e ai cda. La seconda: togliere gli ostacoli sulla strada delle imprese fondate da donne. Su 100 imprendito­ri oggi solo 22 sono donne. E una decina d’anni fa la percentual­e era più alta, seppure di poco: 23%. Segno che sul fronte dell’impresa al femminile c’è ancora tanto da fare. Se poi prendiamo le società quotate, le imprese in cui la maggioranz­a fa riferiment­o a una donna sono solo il 2%. Il gap di genere è straordina­riamente significat­ivo quando si parla di propension­e a mettersi in proprio e — come sottolinea l’indagine internazio­nale Gem — questo vale soprattutt­o nel nostro Paese. Da notare: di solito la propension­e a mettersi in proprio è maggiore nella parte della popolazion­e con titoli di studio più alti. Le donne hanno titoli di studio più alti degli uomini ma nonostante questo non fondano aziende tutte loro. L’ultima frontiera dell’equità di genere nel mercato del lavoro sembra proprio quella dell’impresa al femminile.

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Il volto Fabrizio Negri, amministra­tore delegato di Cerved Rating Agency, l’agenzia che analizzato 14 mila società di capitali

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