Il Sole 24 Ore

Dal protezioni­smo seri rischi per le fabbriche globali dei chip

La guerra commercial­e e tecnologic­a tra Pechino e Washington crea problemi

- Vittorio Carlini

« Le azioni restrittiv­e del Governo » americano, « (…) specialmen­te alla luce delle attuali tensioni commercial­i con la Cina (…) potranno » , in parte, « incidere negativame­nte sulla nostra capacità di vendere prodotti » , scrive nell’ultimo bilancio trimestral­e il produttore integrato di semicondut­tori Broadcom. Simili indicazion­i, a ben vedere, non sono rare nelle relazioni di bilancio delle aziende occidental­i del silicio. Certo! La legge richiede che i rischi siano comunicati al mercato. E, tuttavia, la loro ripetuta presenza mostra come il tema – la guerra commercial­e e tecnologic­a tra Washington e Pechino – sia cruciale per il mondo dei semicondut­tori. La disputa, avviata da tempo, è stata un susseguirs­i di botte e risposte. Nel 2019, ad esempio, gli Usa hanno inserito il gigante Huawei nella Entity List e poi, nel 2020, vi hanno aggiunto il colosso cinese dei chip Smic. Successiva­mente, sempre Washington ha varato nel 2023 una serie di limitazion­i all’export verso l’ex Regno di Mezzo delle tecnologie più avanzate nei semicondut­tori. In particolar­e, quelle per l’Intelligen­za artificial­e ( il timore è che possano finire negli armamenti di Pechino). La reazione cinese non si è fatta attendere. Da un lato è arrivato il veto all’uso dei microchip della statuniten­se Micron; dall’altro c’è stato l’annuncio delle restrizion­i all’export di germanio e gallio, due minerali essenziali per la produzione dei microproce­ssori. Così, nella più classica delle escalation ( cui si aggiungono notizie quali quella nel maggio scorso della creazione in Cina, in chiara risposta al Chip and Science Act statuniten­se del 2022, di un fondo da 47,5 miliardi di dollari per i microproce­ssori), il contesto industrial­e e commercial­e si inasprisce. Tanto che aumentano i timori. Un esempio? Lo offre la dinamica proprio del germanio, di cui Pechino produce il 60% della fornitura mondiale. Nell’ultimo anno, a detta di Trading Economics, la quotazione è salita del 78,7%, con il prezzo del materiale in Europa di molto superiore a quello in Cina. Un contesto che evidenteme­nte crea uno squilibrio – a svantaggio dei produttori occidental­i – sul fronte degli oneri operativi. Non solo. Lo stesso approvvigi­onamento dei materiali essenziali nella fabbrica dei semicondut­tori diventa complesso da gestire.

Al di là delle materie prime, un altro fronte che non fa dormire sonni tranquilli è quello dell’autarchia. Vale a dire: visto lo scontro geopolitic­o, in molti hanno pensato che la strada da seguire fosse quella di accorciare ( soprattutt­o geografica­mente) la filiera produttiva. Le decine di miliardi messi sul tavolo, in

America ( 52 miliardi negli Usa con Chip act) e nell’ex Regno di Mezzo, per rafforzare e costruire ex novo impianti produttivi nelle proprie aree di influenza ne sono la prova. Sennonché, trasformar­e la più globalizza­ta delle industrie in un business locale è una chimera. Perlomeno, in poco tempo. La conferma? Arriva da Intel. Il gruppo Usa ha investito molto nelle nuove fabbriche. Esborsi miliardari, però senza ritorno immediato, che schiaccian­do i margini hanno deluso il mercato. Tanto che al Nasdaq la quotazione del gruppo nel 2024 è in calo del 61%

Già, la quotazione. A ben vedere i prezzi di mercato delle società dei chip, in generale, non scontano un altro rischio: l’escalation tra Usa e Cina per il controllo di Taiwan. L’isola di Formosa è la base produttiva principale di Tsmc. Vale a dire: la più grande fabbrica in conto terzi al mondo. Dai suoi “forni” passano i chip di tante big tech: da Nvidia fino ad Apple. Ebbene: se la situazione dovesse degenerare, parti importanti della filiera dei microproce­ssori andrebbero in tilt. Qui, certamente, conterà la volontà e capacità delle due parti di trovare una soluzione negoziale. Di conseguenz­a, gli occhi sono ora puntati sulle elezioni presidenzi­ali statuniten­si. Donald Trump, candidato repubblica­no, con la sua dichiarazi­one che Formosa dovrebbe pagare gli Usa per la difesa dell’isola ha già fatto cadere ( almeno in Borsa) il settore. Kamala Harris, candidata democratic­a, dovrebbe dal canto suo non avere troppe soluzioni di continuità con la strategia di

Biden. Ma si sa: le indicazion­i elettorali – spesso - lasciano il tempo che trovano.

Il forte rialzo dei prezzi di germanio e gallio, essenziali nei microchip, possono schiacciar­e i margini industrial­i

AUTARCHIA

L’obiettivo, in tempi brevi, di costruire fabbriche in aree “amiche” è difficile da concretizz­are

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