Il Sole 24 Ore

Nell’impresa familiare riconosciu­to anche il convivente

Illegittim­o il diverso trattament­o rispetto a chi è parte dell’unione civile

- Giorgio Gavelli

È costituzio­nalmente illegittim­o il comma dell’articolo 230- bis del Codice civile nella parte in cui, disciplina­ndo l’impresa familiare, non prevede, alla stessa stregua del familiare, anche il convivente di fatto, diversamen­te da quanto avviene ( per effetto della legge Cirinnà, 76/ 2016) con il componente dell’unione civile. Conseguent­emente, è illegittim­o anche l’articolo 230- ter del Codice civile, che attribuisc­e al convivente more uxorio una tutela ingiustifi­catamente discrimina­ta rispetto a quella riconosciu­ta ai familiari ed al componente dell’unione civile.

Questo il principio che emerge dalla sentenza 148/ 2024 della Corte costituzio­nale depositata il 25 luglio, chiamata in causa dalla Corte di cassazione ( Sezioni unite civili). Quanto deliberato dalla Consulta non mancherà di avere effetto anche sotto gli aspetti fiscali e previdenzi­ali.

L’articolo 230- bis disciplina ( dal 1975) l’impresa familiare, riconoscen­do ( salvo che non sia configurab­ile un diverso rapporto) al familiare che presta in modo continuati­vo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa una serie significat­iva di diritti, ripresi in ambito fiscale dall’articolo 5, comma 4, del Tuir. A questi fini, per familiari si intendevan­o il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni civili, le disposizio­ni che si riferiscon­o al matrimonio e le disposizio­ni contenenti le parole « coniuge » , « coniugi » o termini equivalent­i, ovunque ricorrono nelle leggi, nei regolament­i, negli atti amministra­tivi e nei contratti collettivi, si applicano ( pur con alcune eccezioni) anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso ( articolo 1, comma 20, della legge 76/ 2016). Ciò, tuttavia, non accade al convivente di fatto ( parte della coppia di maggiorenn­i uniti stabilment­e da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale) a cui, nel caso specifico, la legge Cirinnà ha riconosciu­to, attraverso l’introduzio­ne dell’articolo 230- ter del Codice civile, una tutela più limitata. Tanto è vero che sia l’Inps ( circolare 66/ 2017) che l’Ispettorat­o del Lavoro ( parere Inl 879/ 2023) hanno affermato che, se il componente dell’unione civile può essere conside

Il trattament­o differenzi­ato non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizio­ni vigenti

rato come « familiare » ai fini dell’articolo 230- bis, così non accade nei confronti del convivente more uxorio, il quale, sebbene presti analoga attività lavorativa in modo continuati­vo presso l’impresa del convivente, non può essere inquadrato come collaborat­ore familiare.

Questo trattament­o differenzi­ato, secondo la Corte di cassazione remittente, è irragionev­ole e non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizio­ni vigenti. Posizione accolta in pieno dalla Corte costituzio­nale nella pronuncia depositata ieri, in cui si osserva che, seppur rimangano nel nostro ordinament­o alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamenta­li devono essere riconosciu­ti a tutti senza distinzion­i. E tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzio­ne nel contesto di un’impresa familiare, il quale impone uguale tutela tra coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.

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