Questione di linguaggio, anche nelle aziende
Il linguaggio è uno strumento incredibilmente potente che modella la nostra comprensione del mondo e delle persone. Quando si parla della comunità Lgbtq+ si ha a che fare con un linguaggio in continua e rapida evoluzione, che cerca di fotografare una realtà in divenire con molte sfumature diverse. Ne è un esempio la sigla che viene usata per indicare l’insieme della comunità, che si è evoluta nel tempo per comprendere il maggior numero di identità e di orientamenti sessuali e che oggi è arrivata all’acronimo Lgbtqia+, vale a dire lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali, fino al “+” per indicare chiunque non sia incluso esplicitamente nelle altre lettere. Abitualmente si usa la versione più breve di Lgbtq+, che non è certo esaustiva e completa, ma che può essere assunta convenzionalmente per indicare la complessità della realtà.
Complessità che non si esaurisce certo nella sigla e gli errori comuni sono ancora molti, come ad esempio il confondere il termine coming out ( l’atto di rivelare la propria identità di genere e/ o sessuale) con outing ( rivelare informazioni altrui, senza il consenso dell’interessato). Capita, così, sempre più spesso, che non solo le associazioni della comunità Lgbtq+, ma anche le aziende si attivino per diffondere al loro interno un linguaggio più inclusivo, come ad esempio ha fatto Mediobanca con la pubblicazione del volume WOR
DS - Win Over Radicated Diversity Stereotypes. Proprio iniziando da un linguaggio comune si può creare un ambiente che non lasci spazio a discriminazioni e che permetta a ciascuno di poter esprimere liberamente ciò che è, non avendo timore di stereotipi e pregiudizi. Liberando così anche i talenti.