I quattro giorni da candidato premier di Carlo Cottarelli
Se mai avessimo avuto bisogno di credere che Carlo Cottarelli fosse un marziano a Roma arriva il suo libro Dentro il Palazzo a ricordarcelo. Si era capito fin da quando varcò il portone del Palazzo del Quirinale con l’ormai celebre trolley e lo zainetto sulle spalle, simboli di un’alterità fin dall’iconografia, in genere affidata a ingressi a mani libere o con codazzi di assistenti, suggeritori, portatori di interessi e di borse. Innanzitutto, l’ex candidato premier racconta il senso delle sue dimissioni da senatore del Pd. Un gesto conseguente per chi, eletto per l’area liberaldemocratica del partito guidato da Enrico Letta, si ritrova in una compagine spostata a sinistra e guidata da un outsider esterno come Elly Schlein. La cronaca abituale avrebbe previsto un passaggio a un altro gruppo o al gruppo misto. Ma Cottarelli è un marziano e ritiene non sia coerente e, soprattutto, essendo stato eletto con i voti dati al partito e non con le preferenze, considera le dimissioni l’unica opzione compatibile con la sua coscienza.
Quanto sia vissuto come un altrove della politica lo dimostra anche il fatto che le sue dimissioni vengono accettate in un batter d’occhio, prassi del tutto inusuale che ha portato altri, bocciatura dopo bocciatura, a non poter lasciare il laticlavio per anni.
Del resto all’autore tutto appare un po’ paradossale e alieno: l’oralità della procedura del lavoro soprattutto in commissione, un paradosso burocratico i tempi di intelligenza artificiale, la meccanicità di certi voti d’aula su testi del tutto sconosciuti, accettati o respinti solo sulla base delle indicazioni del capogruppo, l’ipocrisia dell’abuso degli ordini del giorno, buoni per restare agli atti, ma del tutto inutili per un reale risultato politico.
Soprattutto a Cottarelli non piace la tendenza ormai in voga da una quindicina d’anni di un Parlamento ridotto a passacarte del governo che lo inonda di decreti o, peggio, di decreti legislativi con rosario di decreti delegati su cui alla fine il potere di sindacato da parte di Camera e Senato diventa risibile. Non gli quadra nulla, nemmeno lo stipendio. Che è alto, forse troppo alto per chi ha il soprannome di “mani di forbice” e ha fatto il suo debutto pubblico nella vita politica italiana da commissario alla spending review. L’understatement con cui ha affrontato l’avventura politica lo ha reso ancor più personaggio ed è con questa consapevolezza che ha scritto il lato B del libro, quello che racconta i quattro giorni in cui è stato candidato premier dopo la chiamata di Mattarella. Un piccolo De bello gallico, scritto per lo più in prima persona salvo le numerose citazioni in terza persona quando si parla del possibile Governo Cottarelli. Le pennellate narrative di quelle ore ritraggono la severa sobrietà delle indicazioni del Capo dello Stato, la remissività di Luigi Di Maio, la consapevolezza di un Giancarlo Giorgetti già sensibile allo spread, i modi gentili e urbani di Matteo Salvini in versione privata e non tribunizia. La prolissità un po’ vacua di Giuseppe Conte.
Ma soprattutto Cottarelli spiega come fosse chiara la consapevolezza che la scelta sul suo nome fosse diventata, alla fine, un vero e proprio test di tenuta della Costituzione e del ruolo del Presidente della Repubblica. I partiti premiati dalla ventata populista pretendevano il diritto di nomina, proprio per conto del popolo, del ministro dell’Economia senza interferenze, senza contrappesi, senza mediazioni. Invece, come è normale nella prassi costituzionale, quella nomina ( Paolo Savona) – tra le più delicate vista l’esposizione italiana sugli scenari dei mercati globali – era al centro di esplicite obiezioni del Quirinale, preoccupato che quel candidato sembrasse anti euro ed esponesse il Paese alla speculazione sul debito pubblico.
Solo nel primo giorno di consultazioni lo spread balza di 100 punti, i mercati sono in agguato. E questo alla fine basta a Cottarelli per persuadere Luigi Di Maio e soprattutto Matteo Salvini. Così alla fine arriva Giovanni Tria al Tesoro e il Governo giallo verde può partire con il suo « prolisso » presidente del Consiglio.
L’autore del libro trae un sospiro di sollievo e con il suo trolley esce dal Palazzo del Quirinale ed entra stabilmente nel circo mediatico delle Tv, ma soprattuto nelle scuole, dove si impegna in un’azione capillare di pedagogia civile . Lo accompagna un commiato prezioso. Le parole di Sergio Mattarella: « La Repubblica le deve molto » .
LA SCELTA DEL SUO NOME ERA DIVENTATA UN TEST DI TENUTA DELLA COSTITUZIONE E DEL RUOLO DEL CAPO DELLO STATO