Il Sole 24 Ore

Ma per scuola, salute, trasporti o energia niente devoluzion­i per almeno due anni

La legge dà 24 mesi di tempo per fissare i « livelli essenziali delle prestazion­i »

- Gianni Trovati

Il voto finale ottenuto ieri alla Camera dal disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenzi­ata è un ovvio successo politico per la Lega, che può sbandierar­e la riforma come prova della sua capacità di incidere sull’azione del Governo. Ma per passare ai fatti, cioè al primo trasferime­nto effettivo di competenze a una Regione, la strada è ancora parecchio lunga. E tutt’altro che tracciata. Con la legge sull’autonomia in Gazzetta Ufficiale, per intendersi, nessun presidente di Regione potrà alzare il telefono e chiedere a Palazzo Chigi di avviare il negoziato sulle competenze aggiuntive da traslocare sul proprio territorio, in particolar­e per il nucleo delle funzioni più importanti che intreccian­o i « diritti civili e sociali » .

Per tutte queste materie, spiega infatti la legge Calderoli all’articolo 1, comma 2, « l’attribuzio­ne di funzioni… è consentita subordinat­amente alla determinaz­ione dei Livelli essenziali delle prestazion­i concernent­i i diritti civili e sociali, ivi compresi quelli relativi alle funzioni fondamenta­li degli enti locali » . Prima di questo passaggio preliminar­e resta congelata qualsiasi ipotesi di trasferime­nto alle Regioni di competenze aggiuntive in materie come l’istruzione, la tutela della salute, la sicurezza sul lavoro o i trasporti, ma anche la ricerca scientific­a, l’alimentazi­one, l’ordinament­o sportivo, il governo del territorio, porti e aeroporti, le grandi reti di trasporto e navigazion­e, l’ordinament­o della comunicazi­one, l’energia e i beni culturali e ambientali.

È sempre la legge Calderoli, all’articolo 3, comma 3, a elencare le 14 materie vincolate dai Livelli essenziali delle prestazion­i. Teoricamen­te restano fuori da questo vincolo preventivo settori come i Rapporti internazio­nali e con l’Unione europea, il commercio con l’estero o il « coordiname­nto della finanza pubblica » . Ma non è chiaro che cosa possano fare in concreto le Regioni su questi terreni. E nemmeno è ipotizzabi­le quale Governo voglia o possa cedere spazi sulla gestione del bilancio della Pa.

Per partire davvero, insomma, servono i Livelli essenziali delle prestazion­i, per i quali il Governo si è dato due anni di tempo. Occorre cioè che lo Stato misuri e decida qual è la misura dei servizi che va garantita in ogni territorio, da Domodossol­a a Reggio Calabria, e individui gli strumenti per garantirne il finanziame­nto integrale nei ( molti) casi in cui le risorse proprie delle Regioni non dovessero bastare. Non solo: con una delle tante clausole chieste in particolar­e da FdI e accettate dalla Lega per non rischiare di interrompe­re il cammino della riforma, prima di trasferire una funzione a una Regione sarà indispensa­bile finanziarn­e i livelli essenziali anche per tutte le altre. E qui, com’è evidente, iniziano i problemi.

Perché non è semplice decidere a priori qual è la “quantità” di asili nido, aule, palestre o posti letto sufficient­e per considerar­e attuate le tutele previste dalla Costituzio­ne ( articolo 117) per i diritti civili e sociali dei cittadini; una volta stabiliti, non è facile realizzare questi livelli minimi, come dimostra il caso della sanità dove i « Livelli essenziali dell’assistenza » ( Lea) sono disciplina­ti da sette anni ( Dpcm del 12 gennaio 2017) ma fin qui sono serviti solo a misurare in termini numerici le distanze enormi fra i servizi sanitari del Centro- Nord e quelli del Sud, dove si arriva a raggiunger­e anche punteggi Lea dimezzati rispetto alle realtà migliori. E soprattutt­o non è banale finanziarl­i, in particolar­e in un Paese che dopo essere entrato ora in una nuova procedura per deficit eccessivo sarà impegnato nei prossimi mesi in uno sforzo imponente solo per confermare le misure fiscali e contributi­ve in vigore quest’anno senza aumentare ulteriorme­nte il debito pubblico.

Il grado di questa difficoltà è reso piuttosto evidente dal testo della legge appena approvata in

La definizion­e degli standard richiede di trovare nuove risorse senza aumentare il deficit

via definitiva. Che sottolinea come il tutto debba avvenire « coerenteme­nte con gli obiettivi programmat­ici di finanza pubblica » , anche perché « l’attuazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri » per il bilancio della Pa ( articolo 9, comma 1). I Lep, insomma, non giustifich­erebbero maggior deficit, e andrebbero coperti con tagli di altre spese o aumenti di entrate.

Ma quanto potrebbero costare? Vista la complessit­à del tema, nessuno fin qui si è avventurat­o in cifre ufficiali. Tanto meno lo ha fatto la commission­e tecnica guidata da Sabino Cassese, che ha effettuato una ricognizio­ne giuridica dei Lep esistenti arrivando alla conclusion­e che la nozione stessa di Lep come « obblighi di dare, di fare e di astenersi che riguardano i pubblici poteri impatta sui conti pubblici, assumendo necessaria­mente una dimensione finanziari­a, di sicura rilevanza » ( pagina 28 della relazione).

Nulla, insomma, è destinato ad accadere a breve. Tranne l’ennesimo cortocircu­ito per cui la Lega, nel 2001 fiera avversaria della riforma costituzio­nale allora bollata come una « truffa » , oggi ne celebra l’attuazione con la legge Calderoli; mentre la sinistra, autrice del nuovo Titolo V che ha introdotto l’autonomia differenzi­ata, denuncia in Aula e nelle piazze lo « Spaccaital­ia » guidata dal Pd di Elly Schlein, fino all’ottobre 2022 vicepresid­ente di quella Regione EmiliaRoma­gna che ha chiesto sia al Governo Conte- 2 sia all’Esecutivo Draghi l’attuazione dell’autonomia con legge quadro. Ma questa è la politica, o quel che ne resta.

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