Sì alla tutela dalle azioni dei creditori anche quando l’attività non prosegue
Per il Tribunale di Milano ciò che conta è assicurare il buon esito delle trattative
Nella composizione negoziata, le misure protettive possono essere concesse anche a una società in liquidazione. Lo ha stabilito la seconda sezione civile del Tribunale di Milano ( decisione del 23 maggio) con un provvedimento destinato a lasciare un segno. In particolare, la questione derivava dal fatto che nel caso affrontato dai giudici milanesi le misure protettive ( consistenti nella protezione dalle aggressioni esecutive e cautelari da parte dei creditori) erano state chieste da una società che si trova da anni in uno stato sostanziale di liquidazione e che ora è sì entrata in un percorso di composizione negoziata ma pur sempre sulla base di un piano puramente liquidatorio, e che cioè non prevede una successiva prosecuzione delle attività.
Proprio questo è il motivo per cui la concessione delle misure era stata negata, in prima istanza, dal Tribunale di Pavia, il quale aveva osservato appunto che non avrebbe avuto senso concedere le misure quando non era previsto neppure in astratto che « l’attività caratteristica possa riprendere all’esito della composizione negoziata » . Come a dire che a godere delle misure possono essere, fra tutti gli imprenditori legittimati ad accedere alla composizione negoziata, solo coloro che vi accedano in una prospettiva di continuità.
Il Tribunale di Milano ha rovesciato tale decisione, in sede di reclamo, contrapponendovi una serie di argomenti specifici e generali al tempo stesso. In primo luogo è vero che all’esito della composizione « deve residuare un’attività economica organizzata ai fini dello scambio di beni o servizi » , ma tale principio « deve essere calato nel caso concreto » : e nel caso concreto l’impresa era ed è una società che in ogni caso sarebbe destinata a dissolversi, avendo quale suo stesso scopo statutario la realizzazione e la vendita di un certo complesso immobiliare.
In casi come questo risulta perfino impossibile distinguere fra “attività caratteristica” e “attività liquidatoria” dell’impresa, perché l’attività caratteristica è rappresentata proprio da un’attività di natura liquidatoria: nel senso che all’una corrisponde l’altra, e viceversa. E fino a quando lo scopo in vista del quale l’impresa era stata costituita non sia stato raggiunto, indipendentemente dalle situazioni di crisi che l’impresa può trovarsi ad attraversare, l’attività va considerata in continuità. « Una diversa interpretazione » , nota giustamente il Tribunale, « escluderebbe la possibilità di accedere alla composizione della crisi a quelle imprese che, pur essendo in crisi, realizzato il fine per cui erano state istituite sono naturalmente destinate a sciogliersi » .
Ma non solo. In secondo luogo, in termini ancor più generali, il Tribunale di Milano ha negato in radice la legittimità di un’interpretazione delle norme che assegni al « binomio continuità/ liquidazione » il valore di unico criterio « al fine di verificare se le misure protettive possano essere concesse » . Quel « binomio » , ha detto il Tribunale, è sicuramente un criterio valido, ma non meno di altri: « e primo fra tutti la possibilità di condurre serie trattative con i creditori » . Ciò che va verificato sopra ogni altra cosa, insomma, è che le misure richieste siano funzionali ad assicurare il buon esito delle trattative: è l’accertamento di tale funzionalità a dover essere considerato assorbente, e capace di giustificare di per sé la concessione delle misure quale che sia l’oggetto del piano.
Ecco, è soprattutto questo il principio che appare destinato a lasciare il segno, perché è un principio che sancisce la prevalenza della sostanza sulla forma e che restituisce alla composizione negoziata la sua dimensione naturale: quella di un percorso aperto a qualunque soluzione e qualunque sia lo scenario, orientato dall’unico fine del superamento di una crisi e delle conseguenze che ne derivano.