CRISI PARTITA A FINE ANNI 90, LA SFIDA ( PERSA) CONTRO L’INNOVAZIONE DI SPAGNOLI E SVEDESI
Èiniziato prima il declino del marchio, che in dieci anni ha dimezzato i ricavi e da troppi esercizi chiude in perdita, o quello dell’azienda? È come chiedersi se venga prima l’uovo o la gallina e l’unica certezza sono i numeri: benché la prima pietra dell’impero della famiglia veneta sia stata posata nel 1965, con la nascita del marchio di abbigliamento, oggi la parte moda vale il 2% della holding che fa capo ai Benetton, focalizzata su settori industriali sideralmente lontani dalla moda. Poi ci sono i bilanci: dai due miliardi di fatturato del 2012, si è passati al miliardo o poco più del 2023. Benetton ha bisogno di un turn around drastico e rapido e non sarà facile perché, come dice la parola, ribaltare i destini di un’azienda in crisi non lo è mai e per altre ragioni. La prima è che Benetton appartiene all’industria della moda, che sta affrontando sfide enormi, dalla transizione ambientale ai cambiamenti nelle scelte di consumo nelle generazioni più giovani, indipendentemente dalle disponibilità economiche. I problemi di Benetton inoltre vengono da molto lontano, addirittura da prima dell’ 11 settembre, che pure mandò in crisi persone, Paesi e aziende di ogni settore. Gli altri cigni neri, il crac Lehman del 2008 e il Covid, sono stati affrontati da tutte le imprese del mondo, che però, nella maggior parte dei casi, hanno già recuperato i livelli del 2019. Certo, nel caso di Benetton ha influito, in termini di immagine, pure il crollo del ponte Morandi e la ( non) gestione della crisi reputazionale che ne è seguita. Come per le altre difficoltà, l’incapacità di risollevarsi è legata a ragioni e scelte interne, non a imprevisti nazionali o globali. Era già successo nei primi anni duemila, con la rivoluzione portata da internet nella distribuzione ( si pensi all’e- commerce) e nella comunicazione, che nell’industria della moda è stata più difficile da affrontare rispetto ad altri settori. Ma si può andare ancora più indietro: cavalcando la globalizzazione, come fecero moltissimi altri marchi di fascia media, Benetton delocalizzò pesantemente in Asia, proteggendo i margini ma senza abbassare i listini, scelta che si trasformò in boomerang quando, nel 2013, oltre 1.100 lavoratrici sottopagate ( eufemismo) morirono nel crollo di una fabbrica in Bangladesh che produceva per decine di marchi occidentali, tra i quali Benetton, che però fu tra i meno decisi ad affrontare la questione della trasparenza delle filiere e della sostenibilità sociale, un tema che oggi è tornato con prepotenza anche grazie alle recentissime norme europee. Solo che siamo nel 2024. I rimpianti maggiori riguardano la gestione della competizione con gli altri due colossi della moda europei, gli svedesi di H& M e gli spagnoli di Inditex. Non è un caso se l’Italia fu uno degli ultimi mercati in cui essi entrarono: temevano proprio il confronto con Benetton, che non c’è stato, di fatto. Tra il 2013 e il 2023 il fatturato di Inditex è più che raddoppiato, da 16,7 a 35,9 miliardi; quello di H& M da 14 a 21 miliardi. Non si chiede certo a un leader di mercato – come Benetton è stato per molti anni, in Italia e non solo – di copiare le strategie dei rivali. Ma si presume una forte attenzione alle loro mosse vincenti: mentre H& M investiva in mini collezioni con stilisti legati all’alta gamma, come Karl Lagerfeld, Benetton decideva di sfilare a Milano e, negli ultimi anni, di affidarsi a un direttore creativo anziché a un team interno disposto a restare anonimo. Mentre Inditex segmentava i marchi con attenzione ( da Zara e Bershka, fino all’intimo di Oysho), Benetton alzava il posizionamento di Sisley. Potremmo purtroppo continuare, aggiungendo contrasti interni alla famiglia che non hanno aiutato ( altro eufemismo). Buon lavoro e buona fortuna a Claudio Sforza.
‘ Il turn around sarà reso più difficile dalla svolta ambientale in cui è impegnata l’industria della moda globale