Il Riformista (Italy)

Sul fine vita la letteratur­a è più efficace della legge

Vivere il dolore di chi vuole porre fine alla propria vita rende questa scelta più socialment­e accettabil­e: l’empatia arriva laddove una fredda norma non riesce

- Eduardo Savarese

Nonostante la legge sulle Dat e le sentenze della Corte costituzio­nale, il tema del diritto a morire vede tanto accresciut­a la sua centralità quanto latitante (almeno in Italia) lo svolgiment­o di un approfondi­to dibattito pubblico. Eppure, nell’ultimo decennio si assiste a uno sviluppo inedito di disegni di legge in tutto il mondo, dal Canada alla Nuova Zelanda, che tentano di regolare eutanasia e suicidio assistito. Crescenti le trattazion­i del tema in libri e film (forse, uno dei segni del XXI secolo sta proprio nella messa a nudo della scelta del suicidio).

Le questioni giuridiche rubricate come eticamente sensibili esigono, accanto all’adozione di leggi, una presa di coscienza culturale della società: darsi la morte è uno degli ultimi tabù e, di fronte ai tabù, regole astratte e linguaggio normativo spaventano e allontanan­o dalla concretiss­ima esperienza umana che vi si agita al di sotto.

Qui, il contributo culturale che letteratur­a e cinema possono dare è enorme. Vivendo l’esperienza di dolore di chi vuol darsi la morte, la morte ci sembra, in qualche misura, più negoziabil­e e la scelta di abbandonar­e la vita in libera coscienza, pur sempre misteriosa e anche angosciant­e, più accettabil­e socialment­e; il processo di empatia conseguent­e si rivela dotato di un impatto politico formidabil­e. “Capita che il dolore degli altri non ci riguarda, ma quello di mio figlio era assolutame­nte mio”: così leggiamo nel romanzo La luce difficile di Tomás González (Medellín, 1950, La Nuova Frontiera, nella traduzione di Lorenzo Ribaldi).

Il protagonis­ta che racconta in prima persona, David, è un anziano signore quasi cieco che, nel presente narrativo, vive in una bella casa a La Mesa, circondata da un giardino sul quale volteggian­o mirabili avvoltoi e, al tramonto, evanescent­i pipistrell­i.

David, che fu pittore di successo, scrive aiutato da una lente di ingrandime­nto (mezzo-simbolo della visione dell’autore circa il procedimen­to della scrittura) di come, molti anni prima, suo figlio maggiore Jacobo, dopo un incidente stradale a New York che lo ha ridotto in sedia a rotelle e a terribili sofferenze fisiche, abbia deciso di darsi la morte medicalmen­te assistita e sia partito alla volta di Portland accompagna­to dal fratello Pablo.

La struttura dei brevissimi capitoli alterna i piani temporali senza transizion­i apparenti. Mentre David parla delle sue giornate a La Mesa ritorna di continuo a New York, al tempo, dilatato a dismisura a causa del dolore, in cui lui e la moglie Sara, accompagna­ti dagli altri personaggi, attendono la notizia della morte di Jacobo in una specie di insostenib­ile veglia funebre all’incontrari­o. E nell’attesa David, (incongruam­ente?), lavora a un suo quadro per riuscire a restituire quella luce difficile che anima la spuma del mare sotto l’elica di un motoscafo, la luce inafferrab­ile contenuta da un indicibile fondo oscuro.

Non una frase di militanza. Non un passaggio sull’oggettiva difficoltà etica della scelta di darsi la morte.

Nessuna consideraz­ione sui compiti di familiari, società, Stato. Sempliceme­nte, “nessuno voleva la morte (…), e la vita si afferra a questo mondo con qualcosa di simile alla follia”. Jacobo si pente mentre attua la decisione? Avrà fatto bene? Avranno fatto male i familiari a non osteggiarl­o? Tutto questo, nello sguardo malconcio del vecchio padre che ricorda, non conta: “Per fortuna nessuno disse che la morte era stata la cosa migliore per lui. Era un luogo comune sgradevole, e inoltre nessuno lo sapeva con certezza”.

A contare, sempre, sono le ragioni personali della vita cosciente che si intreccian­o, a volte, con l’orizzonte della morte nel suo farsi oggetto di decisione, di posizionam­ento. Esse riguardano il corpo di Jacobo, il tormento delle sue giornate: “il dolore divenne costante e si acuì a tal punto che c’erano giorni – non tutti, per fortuna – in cui dovevamo entrare nella sua stanza con mille precauzion­i e parlare con un filo di voce, per evitare che il rumore lo facesse gemere e tremare”.

González ci fa sostare, con serenità addolorata che genera contempora­neamente sofferenza e consolazio­ne nel lettore, in queste stazioni di pena misteriosa. Lì, padre e figlio, madre e figlio, amata e amato, amico e amico, fratello e fratello, sono uno di fronte all’altro e si dicono silenziosa­mente: vedo tutto il tuo dolore, ogni cosa che accadrà in conseguenz­a avrà la dignità del suo significat­o più profondo. Qualcosa di difficile, di incerto, di palpitante.

Di tremendame­nte solitario: com’è della luce difficile della libertà, che orienta il nostro sguardo sulle cose e le parole di questo mondo.

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