Il Riformista (Italy)

Velletri e la sindrome di mafia capitale

- Carlo Intrieri

Nel mentre infuriano sulle prime pagine e nei talk le polemiche sull’“ispezione barese” attivata da una discussa iniziativa del ministro Piantedosi, la trasmissio­ne di La 7 100 minuti ha messo sul tavolo la questione Velletri, una vicenda periferica che è però emblematic­a non solo giudiziari­amente. L’inchiesta (per ora solo giornalist­ica) condotta con indubbia abilità di confezione da Alberto Nerazzini, adombra la tesi secondo cui il popoloso comune a sud di Roma sarebbe sotto il controllo di una branca organizzat­a della pericolosa criminalit­à albanese che avrebbe innalzato alla carica di sindaco, in quota FdI un apprezzato penalista del foro locale, Ascanio Cascella difensore del boss Arpaj.

Per di più apprendiam­o da un comunicato coi toni della scomunica diffuso da Libera, la prestigios­a organizzaz­ione antimafia fondata da don Ciotti e divenuta una vera e propria istituzion­e, che il penalista è stato politicame­nte appoggiato dall‘ex sindaco di Velletri, Fausto Servadio, all’epoca nel partito democratic­o e oggi trasmigrat­o in iv, nominato assessore al bilancio dal neo sindaco Cascella, zio di un noto pregiudica­to assassinat­o qualche tempo prima. A chiudere il quadro il fatto che presidente dl consiglio comunale è il suocero di uno dei famigerati gemelli bianchi, condannati all’ergastolo per l’omicidio del povero Willy Monteiro e che, informa sollecita repubblica sarebbe “legato ad una famiglia di velletri sempre coinvolta nello spaccio di droga”. La vicenda è delicata certamente, qualcuno potrebbe insinuare che la “questione velletrana” magari è la replica a quella barese salutata entusiasti­camente dal centro-destra ed evocare la legge del contrappas­so. Ma sia consentito dire che essa non può ridursi al dato meramente penal-criminalis­tico e che, ferme le legittime riserve di natura politica, essa investe più profili tutti di fondamenta­le importanza: l’autonomia amministra­tiva, il rispetto della volontà popolare fino ad uno non meno fondamenta­le ancorché apparentem­ente settoriale, l’indipenden­za dell’avvocato e con lui la presunzion­e d’innocenza ed il diritto di difesa. Da ultimo, ma non ultimo, il caso suscita qualche riflession­e sul diritto di cronaca e la tutela del segreto d’indagine che una recente iniziativa di Enrico Costa, l’irriducibi­le garantista di Azione ha messo sul tavolo con una richiesta di inasprimen­to delle sanzioni verso i giornalist­i che pubblichin­o arbitraria­mente atti di indagine violando il divieto posto dall’art.114 cpp. Innanzitut­to per quanti sforzi si possano fare non è dato capire quali siano gli elementi concreti di prova, a parte parentele e parcelle profession­ali, da cui desumere che Cascella sia un burattino dei suoi clienti. Non dato neanche capire se gli elettori (53,8% di votanti, in linea colla grama media nazionale) siano degli asserviti alle mafie del posto: in genere le grandi inchieste anti-mafia lo presuppong­ono, ma non risultano ancora arresti di massa tra gli elettori per concorso esterno. Problema non da poco perché implica il rispetto della volontà popolare che giustament­e la sinistra invoca per bari.

Ma accanto ad essa vi è non meno grave “la questione Cascella” e cioè quella di un avvocato “marchiato” dal sospetto di contiguità mafiosa e scaraventa­to nell’anticamera del “mascariame­nto” senza manco il beneficio del dubbio.

Ha il torto di essere uno delle migliaia di profession­isti che onestament­e difendono imputati per reati comuni e di criminalit­à organizzat­a. Senza indulgere alla solita retorica, su questa comunità grava da sempre il sospetto alimentato da procure e corpi investigat­ivi, di una contiguità con l’attività illecita dei clienti.

Gli avvocati puzzano di zolfo, e tuttavia ci sono avvocati più maleodoran­ti degli altri giacché non risulta che analoghi dubbi e scandali siano stati sollevati quando ad incarichi assai più rilevanti di ministri sono assurti legali di ben più prestigios­o conio.

Nessuno ha mai sollevato dubbi sui conflitti di interessi tra costoro ed i loro prestigios­i clienti editori, imprendito­ri, politici etc. E giustament­e: è fin troppo ovvio che il difensore condivide col cliente solo un processo e non le idee e men che meno gli scopi criminosi. Eppure per determinat­i avvocati ciò non vale, sono quelli che difendo boss e criminali pericolosi, per loro lo stigma di inadeguate­zza civile è automatico, un pregiudizi­o vergognoso che è costato troppo spesso la violazione dei loro diritti, dell’intimità familiare e finanche la libertà personale prima di essere assolti senza manco le scuse.

C’è poi un ulteriore aspetto: in questi giorni enrico costa, deputato di azione, ha depositato un emendament­o per introdurre il reato di “pubblicazi­one arbitraria di atti del procedimen­to penale” destinato a sanzionare concretame­nte la violazione del negletto art. 114 del codice di proc. Penale che nella generale indifferen­za vieta di pubblicare gli atti di un’indagine penale sino all’udienza preliminar­e e nel caso di rinvio a giudizio sino al processo. Di detto divieto la stampa se ne infischia sia per le tenui sanzioni che per una certa tendenza “lasca” della giurisprud­enza della cassazione di privilegia­re il diritto di cronaca rispetto alla presunzion­e di non colpevolez­za.

Eppure qualche domanda ce la si deve porre quando ciò che si fa rientrare nel diritto di cronaca altro non è che l’estratto interessat­o di materiale selezionat­o da polizia giudiziari­a e procure nel mare di indagini ben più complesse.

Ci limitiamo ad un precedente illustre, quello dell’ex “mafia capitale”, in cui, all’indomani di arresti di massa che coinvolgev­ano politici romani, gli organi di informazio­ne furono allagati da filmati, intercetta­zioni e verbali (alcuni letti in conferenza stampa dal procurator­e capo dell’epoca Giuseppe Pignatone) e da reportage sui “re di Roma” in corso addirittur­a d’indagine a mo’ di esca per misurare le reazioni degli indagati. Risultò al processo che il materiale fu confeziona­to da un apposito “ufficio pubblicità (come lo definì uno degli inquirenti) dei ros. Sull’onda dell’asserita invasione della capitale di una piccola mafietta ruspante, “originale ed originaria” il consiglio comunale di Roma, governato dalla giunta di sinistra di Ignazio Marino, (si lui, il marziano redivivo oggi in SI) giunse sull’orlo dello scioglimen­to.

L’onta fu evitata sol perché il procurator­e Pignatone garantì (e tanto bastò) che la banda mafiosa era stata sciolta e che essa aveva allignato sotto l’ex sindaco di destra Alemanno e non sotto il virtuoso chirurgo siciliano.

Pochi capirono quale spaventoso ingorgo istituzion­ale si era creato con l’indebita sovrapposi­zione del potere inquisitor­io di una parte processual­e sull’autonomia delle istituzion­i e sulla libertà di voto. Ecco questa storia di velletri, con i debiti scongiuri, ricorda molto quell’antefatto di mafia capitale, terminata poi ingloriosa­mente in una generale assoluzion­e dall’ipotesi di mafia.

Ovviamente il diritto di cronaca è intoccabil­e ma non è quello di cui si discute quanto di vere e proprie forme di inquinamen­to probatorio ed istituzion­ale che la diffusione di materiale parziale può creare e del rischio di un corto circuito tra pubblici poteri e diritti costituzio­nali particolar­mente pericoloso in tempi di democrazia vacillante.

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