Popolizio nei Bassifondi gorkjiani
Massimo Popolizio ha aggiunto un altro tassello al suo mosaico teatrale (è la sua ottava regia, la quinta con lui in scena) con questo ambizioso allestimento de “L’albergo dei poveri” di Maksim Gor’kij del 1902 (in questi giorni all’Argentina di Roma, poi allo Strehler di Milano), opera cruda nel rappresentare i bassifondi non solo sociali ma morali del mondo: e “Bassifondi” era il titolo originario del lavoro gorkjiano, e così si intitolava anche il vecchio struggente film di Akira Kurosava tratto da Gor’kij; e c’era stato anche un ancora più vecchio film di Jean Renoir, “Verso la vita”, non uno dei migliori del grande regista francese. Qui è tutta Russia, certo, e di vodka ne scorre a fiumi, e molto russa è quel tipo particolarmente morboso di lussuria e sporcizia morale che abbiamo tutti letto in Dostoevskij, verso il quale, come d’altronde tutti gli scrittori russi, Gor’kij ha un gran debito – pensiamo in particolare ai “Fratelli Karamazov”, compreso il gran riferimento religioso qui impersonato dal Pellegrino Luka (un magnifico Popolizio), il personaggio che piomba all’improvviso su questo inferno per tentare di redimerlo ovviamente senza successo. Luka interroga e s’interroga sulle ragion di quella desolazione esistenziale, sprona i personaggi a pensare, ad agire ma contrariamente a tante opere teatrali è un “mago” che non risolve niente e che sparisce, sconfitto, nel Cielo da cui è provenuto mentre l’Inferno terreno continua a bruciare corpi e storie. Sulla scena che s’indovina sudicia tra materassi e tavolacci, i sedici personaggi s’inseguono nei loro deliri con qualche sprazzo di umanità, nella desolazione di esistenze irrimediabilmente perdute, giacché qui non c’è riscatto possibile né sociale né etico avendo smarrito ogni senso di dignità e dimenticato i valori umani. Non c’è una vera e propria trama ma brandelli di vite senza vita, umani-fantocci bistrattati dalla Storia che in qualche momento, ma solo alcuni tra loro, scorgono la luce della vita e persino dell’amore. “Libertà”, grida un personaggio, ma è una parola che “soffia nel vento”, come cantava Bob Dylan, tre vacue sillabe urlate nel silenzio esistenziale dei personaggi, alcuni ributtanti altri stralunati altri ancora tendenzialmente umani ma proprio per questo a maggior ragione soccombenti: perché in questo Albergo dei poveri il futuro non esiste. Gor’kij, in vita celebratissimo autore nell’Urss di Lenin e di Stalin, non è né Cechov né Gogol pur essendo stato un grande scrittore di romanzi ma il discorso teatrale forse non è al livello dei grandi prima citati: ma per questo il lavoro di Popolizio va apprezzato. “Prima di andare a dormire ripasso tutto quello che ho fatto è se mi si presentano davanti degli scogli, dei nodi da sciogliere, rifaccio mentalmente il percorso che mi ha portato lì”, ha detto il regista-attore ad Alessandra Bernocco (nel programma di sala) per far intendere cosa sia il lavoraccio del regista. Impossibile ovviamente fare raffronti con l’allestimento del lontanissimo 1947 di Giorgio Strehler che scelse proprio “L’albergo dei poveri” come primo allestimento del neonato Piccolo di Milano, dunque l’inizio della più mirabolante avventura teatrale, e però – azzardiamo noi – questa rappresentazione di Popolizio al Maestro triestino sarebbe piaciuta proprio per l’incisività del discorso realistico eppure fantasmagorico, come se illusione e realtà si mescolassero nei bassifondi dei reietti in un profluvio di frasi nervose ottimamente rese dalla traduzione di prestigio di Emanuele Trevi che forse vi ha inserito qualche eco americana. Va detto che il discorso talvolta è fin troppo realistico e in qualche passaggio un tantinello enfatico: è vero che si tratta di teatro russo ma qui si grida un po’ troppo, ed è insolito perché la compagnia di Popolizio è di indubbio livello. Da citare soprattutto Sandra Toffolatti nella parte della perfida Vasilisa, Michele Nani, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Diamara Ferrero. Una bella serata di teatro.