Odio social: si può rinunciare alla libertà di espressione?
Bisogna educare al rispetto dell’altro e al dialogo, ma non possiamo rischiare che una critica o un giudizio espressi con veemenza siano etichettati come discorso d’odio
Elon Musk, ospite ad Atreju, la festa dei giovani di Fratelli d’Italia, ha ribadito le sue posizioni sul sacro principio della libertà di espressione. Per lui nessuna regola sui social che possa limitare l’espressione di un pensiero o di un’idea. Però proprio il social di Musk, X, è stato tacciato di essere diventato un luogo in cui odio e fake news divampano in maniera crescente. La Sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha lasciato giorni fa il social, da lei definito come “l’arma di distruzione di massa delle nostre democrazie”. Il commissario europeo Breton ha avviato un procedimento d’infrazione contro X: uno dei motivi è il sospetto di violazione degli obblighi di contrasto a disinformazione e odio online. Nel frattempo è diventato disponibile in Europa il nuovo social di Instagram, Threads, che vuole sostituire proprio la piattaforma di Musk. Ma come si può evitare che Threads diventi come X? Servirebbe regolare i contenuti d’odio, che oggi si trasmettono ancora più velocemente tramite i social. Ma farlo significa porre dei limiti alla libertà di espressione. Come scrivono Pollicino e De Gregorio, nell’articolo Hate speech: una prospettiva di diritto comparato, “il dibattito sul tema dell’hate speech non fa altro che manifestare una tensione tra due valori in gioco, entrambi dotati di una rilevanza ‘super’ costituzionale: la libertà di espressione da una parte e la dignità dell’individuo dall’altra. I discorsi d’odio sono infatti una manifestazione della libertà di espressione, ma, allo stesso tempo, si pongono in contrasto con i principi fondamentali di tutela della persona e del rispetto della dignità umana, oltre che del principio di non discriminazione”. Sul tema, gli approcci dominanti e opposti sono due: quello americano e quello europeo. Il modello europeo, con la CEDU e la Carta dei Diritti Fondamentali, prevede di stabilire un limite alla manifestazione del pensiero laddove, attraverso il suo esercizio, possano essere compromessi diritti considerati altrettanto meritevoli di tutela. Negli Stati Uniti il primo emendamento della Costituzione difende invece la libertà di espressione senza parlare di condizionamenti o limiti. Si applica il principio del “libero mercato delle idee”: la concorrenza tra le opinioni costituisce il mezzo migliore per far sì che la verità s’imponga. Oggi qualcosa sta in realtà iniziando a cambiare, soprattutto nel mondo accademico, e si fanno strada, a livello teorico, dei casi in cui sarebbe per alcuni necessario limitare il primo emendamento. La moderazione dell’odio e la limitazione della libertà d’espressione s’impongono come tema cruciale del nostro secolo. Esattamente come la crisi climatica, quella del digitale è una sfida da vincere tutti insieme, perché non riguarda singoli paesi o nazioni, ma supera i confini e coinvolge tutti allo stesso modo. È sempre più necessario stimolare una discussione globale sul tema, nonostante le diverse sensibilità che ci possono essere. I social sono ormai luoghi pubblici, perché vi si accede liberamente e senza restrizioni, ma in mano a privati. È possibile responsabilizzare le piattaforme rispetto ai contenuti? Inoltre la moderazione dei post viene quasi sempre fatta tramite sistemi automatizzati, spesso non attendibili. D’altra parte gli algoritmi sono programmati e apprendono dai dati proprio dal mondo umano, che è intriso di pratiche e idee discriminatorie. E le leggi che limitano la libertà di parola, come possono essere quelle contro l’hate speech, fino a che punto limitano questa libertà? Non bisogna infatti dimenticare che spesso le prime vittime delle censure nel corso della storia sono state le minoranze e le persone che lottavano per il progresso e il cambiamento sociale e politico. E paradossalmente, oggi, di fronte a cancel culture, politicamente corretto e cultura woke, tutte forme moderne di ostracismo, è proprio quest’approccio massimalista che porta alla diffusione di hate speech verso chi la pensa diversamente, tramite azioni di public shaming, ovvero di umiliazione pubblica. Certamente servono azioni politiche forti e incisive sul tema: dobbiamo agire di fronte a questa necessità di combattere la diffusione d’odio prima di esserne inghiottiti. Ma ricordiamoci che la libertà di espressione è la più grande conquista dell’umanità. Questo diritto non vuol dire offendere, insultare, alimentare odio. Solo che, senza regole, si rischia l’anarchia. Il ruolo centrale è affidato all’educazione: le scuole e le famiglie dovrebbero educare al rispetto dell’altro e delle sue opinioni e al dialogo. Al contempo non possiamo rischiare che una critica o un giudizio espressi con veemenza siano etichettati come discorso d’odio. Altrimenti corriamo davvero il pericolo di non poter più essere liberi di contestare o disapprovare un’opinione e, quindi, di non poter più pensarla diversamente, finendo così per formare una massa omogenea e uniforme. È questo quello che vogliamo? Forse è arrivato il momento di porsi seriamente questa domanda.