Giorgetti incalzato su Patto e salva-Stati Italia in un tunnel?
Il nostro Paese è nel mirino: si temono conseguenze da Bruxelles per il “fallo di reazione” del parlamento
Staccato il telefono il 23 dicembre e passati questi pochi giorni “protetto” in quel di Cazzago Brabbia, Giancarlo Giorgetti si presenta stamani alla Camera davanti alla Commissione Bilancio e al “plotone” delle opposizioni che hanno comunque presentato circa un migliaio di emendamenti alla legge di bilancio. Ammirevoli ma tutto tempo perso e lavoro sprecato perché la manovra starà in Commissione poche ore e nessuno potrà né discutere meno che mai votare qualcosa. Il via libera finale è previsto venerdì. Ufficialmente il ministro Giorgetti dovrà spiegare lo spirito e la ratio della legge di bilancio. Ma le domande saranno su ben altro: Patto di stabilità e crescita approvato mercoledì sera della scorsa settimana sull’asse franco-tedesco e l’Italia solo a rimorchio; e Mes che il giorno dopo, giovedì, il Parlamento dando seguito al volere di palazzo Chigi (ma non di Forza Italia) ha bocciato compiendo quello che è passato alle cronache come un clamoroso e dannoso fallo di reazione dell’Italia nei confronti di Bruxelles. Ora, per quanto si provi a dire il contrario, tutto si tiene: Psc (Patto stabilità e crescita), Mes e Bilancio. Giorgetti lo sa bene così come è consapevole di essere stato sconfessato come ministro dal suo segretario e vicepremier Salvini e, a traino, dalla premier Meloni. “Da ministro avrei detto sì al Mes, mi avrebbe fatto comodo, avevamo preso degli accordi e avrebbe facilitato altri fronti. Ne prendo atto. Il Parlamento è sovrano ma è chiaro che per noi la situazione si complica”, sono le ultime e anche uniche parole pronunciate dal ministro venerdì scorso, pochi minuti dopo l’approvazione della legge di bilancio al Senato. Le opposizioni ne hanno chiesto le dimissioni perché “umiliato” e “azzoppato”. Un suo passo di lato in questo momento è fuori di discussione ma la sua è diventata una posizione scomoda. Le domande oggi inizieranno dalla manovra ma finiranno su Patto e Mes. E sulla perdita di autorevolezza e affidabilità dell’Italia. Al momento, e per fortuna, non ci sono effetti a livello monetario e neppure finanziario. La Borsa tiene e lo spread anche. Ma è chiaro che l’Italia ora è nel mirino. E si temono le reazioni di Bruxelles. Almeno due. La prima: il no del Parlamento italiano impedisce la possibilità per tutti gli altri 19 paesi europei che lo hanno invece sottoscritto di utilizzare il Fondo salva stati per la parte che riguarda eventuali salvataggi bancari (modifica introdotta tra il 2018 e il gennaio 2021 con il governo Conte e via via ratificata in questi anni). Bruxelles potrebbe allora valutare - essere costretta a farlo - di siglare un nuovo accordo tra i 19 paesi dell’Eurozona già firmatari facendo a meno dell’Italia. Pierre Gramegna, il potentissimo direttore generale del Mes, ha tuttora buoni rapporti con il ministro Giorgetti. Gramegna parla bene italiano, produce olio a Cortona, conosce bene il quadro politico italiano, la presenza al governo di forze anti Mes e anche antieuropeiste. Ma ha imparato ad apprezzare e conoscere il ministro Giorgetti, gli sforzi fatti in questi mesi e la tenuta seria e rigorosa sui conti pubblici nella legge di bilancio. Il prossimo 15 gennaio ci sarà una nuova riunione dell’Ecofin a Bruxelles e Giorgetti potrà capire l’aria che tira. Un’altra conseguenza del “fallo di reazione” del parlamento italiano potrebbe essere la mancata assegnazione a Roma della sede europea della sede dell’Antiriciclaggio. Dopo che abbiamo perso la presidenza della Banca europea degli investimenti. Poi arriveranno le domande sugli effetti di Psc e mancata ratifica del Mes sulla legge di bilancio italiana che la Camera approverà venerdì 29 dicembre. Gli effetti sui nostri conti pubblici rischiano di essere immediati. In base al nuovo Patto di stabilità l’Italia dovrà concordare con l’Unione europea il proprio percorso di bilancio, deficit e debito dei prossimi anni. E dei prossimi mesi. A cominciare dal Documento di economia e finanza (Def ) di aprile. Secondo il leader di Italia viva Matteo Renzi “la legge di bilancio è un falso in bilancio perché mancano almeno 17-18 miliardi”. Il ministro Giorgetti “ha firmato un patto di stabilità in cui c’è scritto che dobbiamo avere una curva di rientro della traiettoria debito/Pil dell’1% ma in questa manovra si prevede una curva di rientro dello 0,1% nei prossimi anni. La differenza sono 17-18 miliardi. Nei numeri che votate oggi mancano 18 miliardi”. E questa manovra correttiva, almeno in parte, dovrà essere fatta per il Def di aprile. Se dovessimo poi allungare lo sguardo al 2025, sappiamo già che dopo il Def il governo si dovrà mettere al lavoro: servono 18-19 miliardi per rinnovare le misure non strutturali come il taglio del cuneo fiscale e la riforma fiscali. Dove prenderemo questi soldi? Una valutazione numerica degli effetti economici e quantitativi sulla crescita e sui bilanci pubblici richiederà tempo. Secondo il commissario Ue Paolo Gentiloni i vincoli pretesi dalla Germania gravano sul Patto, e sull’Italia, ma alla fine per noi “le regole nuove sono sempre migliori di quelle vecchie” (che sarebbero tornate in vigore se l’Italia avesse esercitato il potere di veto come pure qualche economista non di destra aveva suggerito). Secondo altri economisti l’Italia già nel 2024 “potrebbe essere sottoposta dalla Commissione a una procedura per deficit eccessivo (ovvero superiore al 3%) visto che nel 2023 è al 5,3% e nel 2024 potrebbe essere al 4,3%”. È già capitato ma le nuove regole fiscali prevedono sanzioni vere e severe. E questo, se dovesse già accedere nel 2024, renderà più debole l’Italia e il suo colossale debito. Che non è previsto scendere nei prossimi due anni. La sensazione è di essere finiti in un tunnel. Sarà interessante ascoltare Giorgetti su questi temi stamani. L’unica soluzione che il governo, soprattutto Giorgia Meloni, sembra intravedere è quella di “congelare tutto fino alle elezioni europee, fare una buona se non ottima performance a giugno e diventare, come Conservatori, nella nuova maggioranza europea con i Popolari per poi cambiare le regole appena votate”.
Così dicono fonti di Fratelli d’Italia. Per questo la premier dovrebbe correre come capolista in tutte le circoscrizioni. Per raccogliere il più largo consenso e poter decidere il cambio di stagione a Bruxelles. I sondaggi, al momento, non sembrano darle ragione.
“Gli effetti sui conti pubblici rischiano di essere immediati ”
Se il destino è nel nome, il Mes va letto in milanese. Dove mès sta per mezzo, metà. Una misura che tanti nella cronaca politica recente hanno visto mezza piena o mezza vuota, avversata o auspicata a fasi alterne e a seconda delle esigenze e delle convenienze. Senza escludere gli scambi di posizione, le contraddizioni e le inversioni a U. La settimana scorsa, prima dell’interruzione per le festività natalizie, la Camera aveva affossato la ratifica del Mes con i voti contrari di FdI, Lega e M5S. E contando sull’astensione dei parlamentari di Forza Italia e di Noi Moderati. Antonio Tajani, che vorrebbe rappresentare in Italia il Partito Popolare Europeo, vive un comprensibile dissidio: in Europa il PPE è stato alfiere del Mes, che ha fatto votare dai suoi sostenitori in tutti i parlamenti nazionali tranne l’Italia. E non va meglio al titolare del dicastero di via XX Settembre. Giancarlo Giorgetti si era detto favorevole alla ratifica. Si era speso per scongiurare lo scontro con Matteo Salvini e per consentire ai gruppi parlamentari leghisti una via d’uscita onorevole. Riferirà proprio oggi a Montecitorio sulla sua posizione e su quella del suo partito.
La giostra degli incoerenti riguarda tutti. Senza escludere il Pd, a partire da Antonio Misiani, che nel governo Conte II era viceministro all’Economia, oggi è responsabile economico nella segreteria. Il suo parere sul Mes è alterno: si è spesso detto favorevole alla ratifica, prima per usarlo subito, poi per non usufruirne mai.
Sul Mes, «nessuna opzione può essere scartata a priori. La linea di credito sanitaria del Mes è uno strumento potenzialmente utile e conveniente», aveva detto Misiani nel 2019. Poi aveva iniziato a ritrattare: «L’Italia - ha fatto presente Misiani intervistato da Mattino 5, nel 2020 - non richiederà l’accesso alla linea di credito del Mes, il Fondo Salva Stati». Nell’estate 2020 è l’allora segretario Dem, Nicola Zingaretti, a contraddirlo: «Il Mes ora è uno strumento finanziario totalmente diverso da quello del passato», aveva scritto Zingaretti. E aveva incoraggiato il governo Conte II a richiederne i fondi.
Bonelli deplora la maggioranza che «Ci isola in Europa sul Mes». Ma quando è in aula, insieme con il gruppo AVS, si astiene. Contribuendo
in maniera determinante a quell’isolamento, e alla bocciatura della ratifica. Predica bene e razzola malissimo. Come predicava bene l’Avvocato del Popolo. L’ex premier Giuseppe Conte, al netto della sua narrativa odierna, è stato il fautore sottotraccia dell’apporto italiano alla ratifica europea, con la risoluzione giallorossa che diceva sì senza troppi distinguo. Adesso Conte vota contro e archivia la stagione del dialogo con l’Europa. E mastica male, quando tirano in ballo Luigi Di Maio. Ieri Conte lo ha respinto, sul caso del documento mostrato in aula da Meloni: «Non mi servono sponde». Eppure tra Conte e Di Maio il gioco di sponda, proprio sul Mes, è stato una costante. Nel dicembre 2019 era Luigi Di Maio a non volerlo, mentre Giuseppe Conte non solo aveva aperto alla ratifica, ma era stato dietro alla trattativa europea che modificato il Mes. Il Fatto Quotidiano, il 2 dicembre 2019, celebrava: «Sul Mes passa la linea Conte-Gualtieri». Cioè la proposta di ratifica, che però Pd e 5 Stelle non avevano avuto la coerenza di votare. Il premier pentastellato se ne era fatto garante, annunciando di essere pronto a votarlo. Sembra un’era geologica, invece sono quattro anni fa. A quel tempo le posizioni tra i grillini erano invertite. L’allora
intransigente Luigi Di Maio, in tandem con Di Battista, lo aveva gelato: «Non si firma solo il Mes, l’ok è da dare al pacchetto. Decideremo noi come e se dovrà passare». «Concordo. Così non conviene all’Italia», gli aveva fatto eco Di Battista. Solo allora il premier, Conte, che lo avrebbe ratificato all’istante, si vedeva costretto a freddare gli entusiasmi: «L’ultima parola spetta al Parlamento», rassicurava, ma: «Lavoreremo per rendere questo progetto non solo compatibile ma utile agli interessi dell’Italia». Il vicepremier della maggioranza gialloverde, Matteo Salvini, spegneva gli ardori di Conte: « Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche al trattato che è da bloccare », dettava in modo chiaro il leghista. Vincenzo Presutto, che per il M5S ha seguito la Commissione bilancio al Senato negli anni della leadership di Di Maio, riassume così il balletto delle posizioni: “All’inizio eravamo ed ero contrario al Mes perché le condizioni del bilancio statale erano critiche e mi riferisco al debito pubblico alto. Ora la mia posizione sul Mes è diversa, perché la crisi economica-finanziaria e sanitaria causata dal Covid ha evidenziato la necessità di rivedere, potenziandolo, il ruolo della Unione Europea con una Italia sempre più attore centrale”. Presutto è fuori dal Parlamento, ma l’aver seguito la parabola di Di Maio conferisce alla sua lettura una chiave interessante.
Era contrario al Mes quando Conte era favorevole, ora che molti degli ex parlamentari – i più esperti – sono diventati favorevoli, constatano che il nuovo leader ha cambiato idea. Conte si è radicalizzato.
Ci sarebbe poi un’altra parabola, quella di Mariastella Gelmini, oggi in Azione con Carlo Calenda. L’ex ministro dell’Istruzione aveva firmato con i capigruppo dei partiti di centrodestra (Lollobrigda, Molinari e Lupi) una risoluzione che domandava al premier Conte di non ratificare il Mes. Era il 9 dicembre del 2020. Tra l’altro, la Gelmini aveva descritto il Mes come un «rischio enorme per il Paese».
Un testacoda, a leggere le ultime dichiarazioni della stessa Gelmini, dopo la bocciatura della misura, la settimana scorsa, su Twitter: «Con la mancata ratifica del Mes l’Italia perde credibilità agli occhi dell’Europa e si rivela sempre più debole, oltre che inaffidabile. Nella maggioranza ci sono delle contraddizioni e oggi sono emerse in maniera inequivocabile».
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