Tra “Che” Guevara e romanzi, Velasco è un filosofo del volley
PCHE HOMBRE MA BASTA CON VANNACCI: ONORE ALL’ORO, ALLE ATLETE E AL LORO ALLENATORE
er quel fastidiosissimo mix di retorica, banalità e inseguimento dell’algoritmo, la (straordinaria) vittoria della Nazionale femminile di pallavolo alle Olimpiadi è stata trasformata in una “risposta a Vannacci” (?). Tale approccio, tanto noioso quanto petulante, è doppiamente sbagliato. Anzitutto perché svilisce la portata sportiva dell’impresa delle atlete allenate da Julio Velasco. E poi perché dà ulteriore importanza a questo esimio giuggiolone senza arte né parte. Davvero: ma chi se ne frega di Vannacci? Cos’è che spinge (quasi) tutti a parlarne? I Vannacci sempre sono esistiti e sempre esisteranno: basta entrare in un bar e ne incontri a decine. Semplicemente, con quelle cloache a cielo aperto che sono i social (e con certi assist di giornali diversamente furbi), oggi i Vannacci diventano ahinoi famosi. E a far loro da sponda sono spesso proprio quelli che – giustamente – non lo sopportano: si chiama miopia tattica, o se preferite masochismo intellettuale. Dategli l’importanza che merita, ovvero un po’ meno di una dermatite blanda al glande e un po’ più di un singolo di Achille Lauro, e parliamo di cose serie.
La medaglia d’oro nella pallavolo femminile, appunto. Una cavalcata trionfale, figlia di talento, abnegazione e inclinazione favolistica, che probabilmente non sarebbe mai accaduta senza la guida dell’hombre vertical per antonomasia: cioè
Velasco. Figura da sempre intrinsecamente letteraria, e oggi nel ruolo del “cavallo di ritorno” capace di generare incanto anche quando tutti lo credevano ormai fuori scena. Sin dalle sue prime apparizioni italiane, Velasco non ha mai soltanto allenato: egli, in ogni sua manifestazione terrena, trascendeva inesorabilmente fino a farsi Verbo e Sentenza. Le giuste pause, la militanza di sinistra, le stimmate della dittatura di Videla (che ha colpito lui e più ancora suo fratello e troppi suoi amici). Negli anni Novanta, quando guidava la “generazione di fenomeni”, era per l’italia dell’epoca una sorta di Che Guevara prestato al volley. Lo amavano tutti, anche e soprattutto quelli che di pallavolo non ci hanno mai capito una mazza (tipo chi scrive). Bravo, militante, intriso di cultura e mai paraculo: praticamente un unicum.
Negli ultimi giorni mezza Italia è tornata “velasco-sessuale”, conio che sta a indicare la passione che sa suscitare questo filosofo della panchina. Lui, così narciso da fingere di non esserlo, è tornato a portare a spasso giornalisti e persone comuni col suo gusto per le frasi-sentenze. Quasi tutte volte a negare che la maledetta “Atlanta 1996”, dove la sua e nostra Italia si fermò all’argento, sia da intendersi come croce esistenziale eterna. “In Italia si vede sempre quello che non va, l’erba del vicino è sempre più verde. È un modo sbagliato di vedere le cose. Godiamoci quello che abbiamo”. Così parlò Zaravelasco prima della finale, insegnando a noi finti sportivi che l’argento non è sconfitta ma secondo posto eroico. Poi, dopo l’oro, Zaravelasco è tornato maestro di vita: “Io non ho mai avuto problemi per il 1996. Sono sempre stato in pace. Sono cose che succedono. Non sono come Roberto Baggio che dice che la ferita del rigore sbagliato brucia ancora. Anche Baggio non dovrebbe avere nessuna ferita, sono cose che succedono nello sport come nella vita. Si vince e si perde”. E pure qui l’hombre vertical Velasco ha ragione. Totalmente ragione. Noi però che – oltre a esser banalmente umani – siamo pure italiani, abbiamo il culto della vittoria e l’orticaria della sconfitta. Soprattutto quando intacca i nostri miti. Come Baggio, come Velasco. E dunque, caro compagno Julio, perdonaci se – ebbene sì – nell’applaudirvi domenica pomeriggio, abbiamo prosaicamente pensato che quella medaglia d’oro fosse anche un rimettere finalmente a posto le cose dopo Atlanta 96. Un chiudere il cerchio che tu avevi chiuso da un bel pezzo, certo, ma noi proprio no. Evviva.