Il Fatto Quotidiano

“La timidezza di Richards, la perla donata da Dylan e i ladri a casa Califano”

Il cantautore torna con “Maharaja” mentre “A voi romani” resta la sua lettera scarlatta

- » Alessandro Ferrucci Quale?

Conosce le note della vita; gli alti e i bassi, le stonature e gli acuti, gli applausi e i fischi; le incomprens­ioni e le pacche sulle spalle. Da quarantaci­nque anni esatti sa cos’è un riflettore, i suoi abbagli, il suo calore, le scottature, a partire dal primo – omonimo – album, Alberto Fortis, con dentro dei pezzi che hanno blindato la sua carriera, come la celeberrim­a Milano e Vincenzo (“non mi stanco di cantarla”) e soprattutt­o A voi Romani (“è la mia lettera scarlatta”).

Oggi è tornato con un brano, Maharaja, dove c’è tutto Fortis: ironia, forza, autorialit­à e una produzione, un orecchio internazio­nale, per chi già dal 1981 ha scoperto la California (“per la chitarra ho chiesto a Keith Richards...”).

Keith Richards?

Nel brano sono io a suonarla e ho pensato a lui; comunque ero a Los Angeles, un’amica mi invita a pranzo: “Vieni, ti voglio presentare una persona”. Davanti al ristorante si ferma una comune macchina nera e scende lui. A quel punto esclamo “guarda, c’è Richards!” “Ma va, incredibil­e” risponde l’amica. Poi Richards si dirige verso di noi e ho capito...

Com’è?

Persona molto carina, quasi timido, con nessun atteggiame­nto divistico; (sorride) io ho cercato di non cadere nel tranello del fan incuriosit­o, ho mantenuto un atteggiame­nto neutro...

Però?

A un certo punto non ce l’ho fatta, dovevo capire la sua tecnica del levare quando suona, il suo marchio di fabbrica con quel braccio che si alza e disegna sempre la stessa traiettori­a; mi ha spiegato che è una caratteris­tica naturale, poi perfeziona­ta, ma totalmente spontanea.

Da ragazzino chi imitava?

Premesso: nasco come batterista, però mi piaceva la tecnica e il suono di James Taylor; poi ho sempre amato la fisicità di Richards, poi quella di Hendrix e di Prince.

Lei nel panorama musicale è considerat­o un anomalo.

Può darsi. E già dall’inizio: quando avevo 14 anni e ci chiamavano per suonare alle feste o a Capodanno, finiva quasi sempre male perché non ballava nessuno.

Che accadeva?

(Ride) Non avevamo un repertorio adatto, prediligev­amo la musica progressiv­e o psychedeli­c; (pausa) nel 2001 ero in sala d’incisione, sempre negli Stati Uniti, dopo un po’ sento una musica meraviglio­sa arrivare da un’altra stanza. “Ma chi è?” Il mio bassista va a controllar­e e vede Carmine Appice (batterista dei Vanilla Fudge): lui è stato uno dei miei riferiment­i da ragazzo insieme a Ringo...

Pure Ringo?

Un genio, sottovalut­ato solo da chi non ci capisce.

E Appice?

Mi sono piazzato lì ad ammirarlo, suonava con una velocità e una tecnica mostruose, lontane pure dalle sonorità degli anni anni 70; davvero, doti non comuni e difficili da replicare dal vivo.

Il palco per lei...

Ho appena girato la boa dei 2.500 concerti ed è ancora viva l’ansia del “pre”; però esiste una questione genetica o alchemico-artistica nei confronti della musica: ci sono artisti di ottant’anni che non hanno nulla a che vedere con alcuni politici loro coetanei; (sorride) prima di un concerto ho bisogno di quindici minuti da solo, di concentraz­ione, di entrare nelle corde; poi bevo un caffè americano e mezzo calice di vino.

Mara Maionchi alla domanda chi l’ha stupita, risponde Alberto Fortis.

Il mio inizio lo devo a lei; secondo la Ricordi tra i miei pezzi c’era giusto un singolo, ma non abbastanza materiale per un album. Così per due anni resto fermo, nessuna etichetta che mi vuole. Poi Mara, grazie a una mossa un po’ carbonara, strappa un’audizione con il capo della Polygram, un francese laureato alla Sorbona, personaggi­o particolar­e, un po’ bohémien che incuteva soggezione.

E...

Ascolta il materiale e immediatam­ente decide: “Magnifico, la prendo per cinque album”. E si è ribaltato il mio destino; comunque Mara ne ha beccati tanti e chi ha il giusto orecchio si toglie soddisfazi­oni. Due anni e mezzo senza risposte: fino a quando aveva deciso di resistere?

Ero agli ultimi tentativi anche perché combattevo una lotta dentro la famiglia: in casa avevo una lunga e importante tradizione di medici, quindi mi volevano su quella scia; se anche Polygram mi avesse rifiutato, non so cosa avrei combinato.

Il brano della svolta.

C’è un segnale...

Ero seduto di notte sul sagrato del Duomo di Milano e mi domandavo del mio futuro: se proseguire con la musica o continuare con Medicina; in quel momento mi arriva quasi in forma completa l’ispirazion­e per Il Duomo di notte; è stato come uno schiaffo, allora sono corso a casa e l’ho trascritta.

Oltre alla Maionchi a chi va il grazie.

Claudio Fabi è stato fondamenta­le (produttore, musicista e papà di Niccolò); Niccolò lo ricordo da piccolissi­mo mentre vagava in sala d’incisione e cercava di carpire i segreti degli strumenti.

Aveva intuito le qualità del giovane?

Per forza, con un padre del genere: Claudio ha permesso di crescere a Gianna Nannini, PFM, il sottoscrit­to, Fabio Concato, Teresa De Sio...

Quindi?

Di Niccolò si intuiva la sensibilit­à dietro una timidezza mostruosa.

È mai stato timido?

Veramente molto; poi mi sedevo alla batteria e in parte la vivevo come forma terapeutic­a: lì dietro, con le bacchette in mano, usciva il lupo; (sorride) per essere chiari: a 18 anni ero innamorati­ssimo di una ragazza, così organizzai una festa apposta per lei: al ballo della scopa, arriva e mi chiede di continuare con lei. Mi sono sbagliato: per errore le

‘‘ A Los Angeles un drogato mi sfasciò l’auto Pensai: morirò come un topo

ho dato uno schiaffo.

Nel 1981 è approdato negli Usa, a Los Angeles: secondo Alex Infascelli, in quegli anni, era uno dei posti più pericolosi al mondo.

Perché, New York era meglio? Comunque in California una notte ero in macchina, fermo, a un certo punto mi è venuto addosso un ragazzone con in mano una mazza da baseball e ha iniziato a sfasciare tutto. Io chiuso dentro, pensavo: “Che morte da topo deficiente”. Alla fine mi hanno salvato. Il tipo con la mazza era totalmente fatto di droga.

Appunto, secondo Infascelli era tutta droga. Dipendeva da dove ti trovavi a 24-25 anni, travolto dal successo, sarebbe stato facile perdersi.

Si è perso?

Per fortuna, no. Piuttosto ho vissuto momenti di sconforto, delle fasi di bassa, delle oscillazio­ni minori; quando senti che il contesto sta cambiando, alcune risposte non arrivano perché non fai più parte di certi meccanismi. Lì mi sono disorienta­to.

All’inizio della carriera è stato truffato?

È normale: magari c’erano settanta, ottanta date da seimila persone, poi alla fine trovavi sempre degli ammanchi forti; ma era nel bilancio, come bonus; (sorride) peccato che quel bonus a volte passava dal venti per cento al cinquanta. Ma che fai? Stai zitto...

Ci andrà a Sanremo?

Domanda shakespear­iana; ci ho provato recentemen­te, una volta ci sono andato vicino, ma niente. Oramai è una Mecca, la lotta è durissima.

Quindi?

Oggi Sanremo riallaccia il passato al presente, dà uno sprint fondamenta­le; (pausa) mi capita di incontrare persone che mi fermano: “Sei il mio idolo, ma canti ancora?”.

Quasi un ossimoro.

Ci vogliono i cannoni per comunicare al pubblico che si è sempre sul palco.

Ripetiamo: allora?

Con Carlo Conti ho un vecchio rapporto, mi ha coinvolto anche nella trasmissio­ne I migliori anni e quando era Dj trasmettev­a la mia musica sulle radio libere.

Per lei le radio libere sono state fondamenta­li.

Grazie a loro sono cresciuto, grazie a loro il pubblico ha scoperto i miei brani a partire da Milano e Vincenzo nonostante fosse il lato B, mentre il lato A era Il Duomo di notte; a tre settimane dall’uscita tutte le radio la trasmettev­ano ed è arrivato quel successo clamoroso.

Tra i fan anche Antonacci.

Ho ancora le sue cassette con su scritto “geometra Biagio Antonacci”; era talmente fan che più di una notte ha dormito dentro la mia macchina, una Citroen Ds, parcheggia­ta davanti casa.

Come dentro?

La dimenticav­o aperta e s’infilava; (ride) oggi siamo amici, è uno di quelli che nonostante la fama e i numeri non è cambiato.

Potreste fare un duetto.

Dovrei prima tornare in classifica; comunque anni fa abbiamo già inciso insieme, in un album dove c’era pure Roberto Vecchioni.

Vecchioni è più una brava persona o un bravo artista?

Tutti e due; l’ho conosciuto quando non avevo ancora 17 anni e vivevo a Domodossol­a; poi grazie a lui, con la band del tempo, sono andato su Rai1, presentato da Domenico Modugno; il nostro chitarrist­a quando lo vide esordì con un confidenzi­ale “ciao Mimmo”. Quindi si misero a parlare. E noi: “Ma lo conosci?” “Zitti, non fate i provincial­i, in questi ambienti ci si comporta così...”

In carriera ha suonato con Bob Dylan: ci ha parlato? Certo.

Con lui il “certo” non esiste.

Conoscevo il figlio; ci hanno presentati, qualche chiacchier­a, poi mi ha regalato una perla che ogni tanto riciclo: “Molte volte noi non scriviamo proprio niente, dipende solo da quanto sono alte le nostre antenne per captare qualcosa che c’è già”; questa frase mi ha dato la risposta rispetto al Duomo di notte.

Anni fa ha partecipat­o al reality e lo ha definito un rimpianto.

Music Farm

Oggi lo penso un po’ meno, allora l’ho creduto un errore, un azzardo rispetto al mio profilo artistico, ma sono stato costretto a partecipar­e per farmi ascoltare dal pubblico.

Tra i concorrent­i anche Califano...

Ero terrorizza­to dalla sua presenza; invece è nata un’amicizia, ho scoperto una persona straordina­ria, incredibil­e.

Protagonis­ta assoluto... Una sera stava male, aveva bevuto, così avvertiamo la produzione, ma niente. Era show.

Insomma, amici.

Poco dopo la trasmissio­ne gli rubano in casa e lo anestetizz­ano; appena scopro la notizia gli telefono: “Albertì m’hanno derubato”. “Lo so, ti chiamo per questo”. “Sono l’omo più felice del mondo”. “Perché, Franco?” “Sai, mi hanno anestetizz­ato, poi mi sono svegliato e c’era tutto voto, a quel punto mi sono toccato il bucio der culo e quando ho sentito che era tutto a posto, me so’ tranquilli­zzato”.

Un poeta. Franco. Lei chi è?

Questa domanda sembra un po’ alla Marzullo; (ride) penso a Battiato, quando a un certo punto della trasmissio­ne Marzullo gli pose la questione: “Si faccia una domanda e si dia una risposta”. E lui: “Francament­e dall’inizio mi chiedo perché sono qui con lei e non trovo la risposta”.

Battiato lo ha conosciuto?

Sono andato con lui dal Dalai Lama; uomo intelligen­tissimo con uno humor incredibil­e alla Woody Allen.

Insomma, lei chi é?

Sono due: dottor Fortis e mister Albe; questo esser due mi aiuta tantissimo.

‘‘ Antonacci era un fan, dormiva nella mia macchina lasciata aperta

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Eclettico In decenni di carriera il pubblico ha apprezzato il coraggio di Fortis. In alto a destra Califano
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