La patriota coraggiosa Alessandrina Tambasco, vittima dei Borboni: una memoria quasi cancellata
Si chiamava Alessandrina Tambasco. Fu protagonista dei moti rivoluzionari scoppiati nel Cilento, in provincia di Salerno, alla fine del giugno 1828, che vennero stroncati nel sangue dalla soldataglia borbonica e dalla deportazione nelle galere del Regno delle Due Sicilie. Una “donna coraggiosa”, racconta Mariella Marchetti in Alessandrina (da poco pubblicato da Giuseppe Galzerano, editore libertario e votato a dare storia ai “senza storia” ),”che pagò con un prezzo troppo alto l’amore per la libertà”. Ignorata dalla storia degli storici, almeno quelli che assomigliano ai “poeti laureati” di Eugenio Montale, la leggendaria Alessandrina aveva trentasette anni (nacque a Montano Antilia nel 1791) quando, scrive Mariella Marchetti, assieme “alla madre, Rosa Bentivenga e alle sorelle, nella notte del 27 giugno del 1828, cucì delle coccarde bianche, divenute poi il simbolo identificativo dei Filadelfi cilentani e degli insorti che reclamavano la libertà ispirandosi ai principi della Rivoluzione francese”.
NELLA NOTTE
del 30 giugno, “per gli insorti che erano entrati in Montano Antilia esultanti accompagnati dal suono delle campane e dal sacerdote, don Giovanni De Luca, che intonava il Te Deum, la coraggiosa Alessandrina si adoperò per sfamare quegli uomini con tutto quello che poté reperire nella sua casa, un gesto pericoloso ma senza dubbio di premuroso accudimento, generosamente femminile, verso quegli uomini che erano padri, mariti, fratelli, figli”.gli uomini della rivoluzione “chiedevano null’altro che fosse approvata la Costituzione e la riduzione del prezzo del sale, odiosa e insostenibile gabella per un popolo costituito in gran parte da poveri braccianti e da contadini stremati dal duro lavoro, ai quali era riservato un destino segnato da un determinismo implacabile, da rassegnazione, da duri sacrifici che in cambio restituivano poco, a volte niente, solo il necessario per sopravvivere”. La reazione borbonica fu spietata. Narra la Marchetti che “Alessandrina venne arrestata con tutta la famiglia: il fratello Vito venne fucilato a Bosco e decapitato, la sua testa esposta sulla pubblica piazza come macabro trofeo. Il marito Pietro Bianchi fu condannato a dieci anni di dura reclusione e morirà in carcere a seguito degli stenti. La madre di Alessandrina venne invece condannata a sei anni di carcere, le due sorelle furono imprigionate e liberate solo dopo aver patito parecchi mesi di detenzione”. Per Alessandrina "arrivò la condanna di dieci anni di carcere duro, prima a Salerno, poi nelle segrete umide e sotterranee dell’isola di Ponza. Il suo amato figlio rimase senza padre, senza madre; si aprì per questa famiglia uno scenario da tragedia che si protrasse per lunghi anni. Non venne risparmiata neppure la sua casa, che più volte fu violata e saccheggiata. Inoltre per Alessandrina, come ulteriore aggravamento di pena, calò lo stigma di donna di facili costumi, costruito ad arte da un'ingiusta e pervasiva macchina del fango”. Uscì “dal carcere duramente provata, con una gamba atrofizzata, claudicante”. A casa “aspettò con speranza che Garibaldi passasse da Montano Antilia”. Naturalmente non “le fu mai riconosciuto nulla per il suo impegno e il suo sacrificio”.