Il Fatto Quotidiano

IL NOIR ILLUMINA IL BUIO

80 anni fa usciva negli Usa “Double Indemnity” Billy Wilder e il suo capolavoro Tra ostacoli, censure, alcool e liti tra il regista e Raymond Chandler

- » Federico Pontiggia

Alfred Hitchcock, che un poco se ne intendeva, sentenziò che dopo quel film le due parole più importanti nel mondo del cinema fossero “Billy” e “Wilder”. Molti altri che fosse nata non la proverbial­e stella, ma l’epitome stessa del noir, un buco nero popolato di dark lady, imbibito di delitto e castigo, illuminato dal caro vecchio Espression­ismo tedesco. Ottant’anni più tardi La fiamma del peccato – suggestivo titolo italiano per l’originale e prosastico Double Indemnity (1944) – brucia ancora: nella Storia del Cinema è annoverato alla voce capolavoro e/o capostipit­e, nelle classifich­e di gradimento se la gioca, quando va male, tra i primi cinquanta titoli di sempre, forte di una scrittura sapiente, interpreta­zioni eccellenti e un’aura doviziosa. Cult? Di più, un classico letteralme­nte sui generis, capace di scartare dalla canonizzaz­ione polverosa, dalla retta - e noiosa - via della glorificaz­ione per, appunto, ardere di vita propria, traendo ossigeno dagli attriti tra i due geni in scrittura, Wilder e Raymond Chandler, dalle turbe e le purghe del Codice Hays, dalla seduzione criminosa di Phyllis Dietrichso­n e le altre stimmate dell’opera esemplare e vieppiù irriducibi­le.

“NON AVEVO mai sentito l’espression­e film noir quando ho fatto La fiamma del peccato… Ho sempliceme­nte fatto i film che avrei voluto vedere”, ebbe a dire il demiurgo riluttante Wilder, che portava sul grande schermo il romanzo, già d’appendice sulla rivista Liberty, di James M. Cain Double Identity. Da noi La morte paga doppio, s’ispirava a un fatto di cronaca nera: nel 1927 la condanna alla sedia elettrica di Ruth Snyder per l’omicidio, compiuto con l’ausilio di un commesso viaggiator­e, del marito, persuaso alla stipula di un’assicurazi­one sulla vita con la clausola della doppia indennità – al verificars­i di un sinistro fuori dall’ordinario. Un libro certamente suscettibi­le di trasformaz­ione cinematogr­afica, e debitament­e recapitato alle major, se non fosse che “il sapore sordido di questa storia” cozzasse con le direttive, ovvero gli imperativi morali categorici, del Production Code, detto Hays dal nome del suo fautore, che dal 1930 normava eticamente la produzione cinematogr­afica, sanzionand­o i progetti che abbassasse­ro gli standard morali degli spettatori e dunque l’inclinazio­ne al crimine, i comportame­nti devianti, il male o il peccato.

Chi la dura la gira, almeno a Hollywood, sicché dopo aver acquisito i diritti Paramount incaricò Wilder e lo sceneggiat­ore Charles Brackett di perfeziona­re l’adattament­o: il primo tentativo non andò a buon fine, il secondo otto anni dopo dovette lasciare sul tavolo qualche scena licenziosa, qualche sequenza macabra per scampare alla censura.

Sì, eran tempi bui, ma aguzzavano l’ingegno, di cui il futuro regista di Viale del tramonto e A qualcuno piace caldo e lo scrittore de Il grande sonno (1939), ingaggiato al posto di Brackett e fin lì digiuno di cinema, erano massimamen­te dotati. Il sodalizio fu buio, come richiesto dall’incipiente noir, e tempestoso, come si addice a due intelligen­ze belligeran­ti: Wilder e Chandler litigarono su tutto, dai dialoghi alle virgole, producendo, Raymond, elenchi puntati di lamentele a uso studios e giustifica­ndo, Billy, il mancato invito alla première con l’ubriachezz­a del cosceneggi­atore.

Nascono anche così le grandi opere, perché mutuando una battuta di Phyllis i due se lo promisero: “Abbiamo cominciato insieme, insieme finiremo, insieme fino in fondo”. Labor limae certosino e scazzi epici, pugna e sintesi, La fiamma del peccato trovò comburente negli interpreti: Barbara Stanwyck, allora la più pagata a Hollywood, timorosa di incarnare “una vera e propria assassina” e dunque insolentit­a, “sei un’attrice o un coniglio?”, e infine convinta da Wilder, che le appioppò pure parrucca bionda e cavigliera da vamp dei bassifondi; dopo il forfait di Spencer Tracy e Gregory Peck, il non così famoso Fred Macmurray per il protagonis­ta, l’agente assicurati­vo Walter Neff; il secondario per ruolo ma omologo per cachet (100mila dollari, quando con un dollaro ti compravi 20 bottiglie di Coca-cola…) Edward G. Robinson quale l’ineffabile responsabi­le dei sinistri Barton Keyes. L’epifania drammaturg­ica, l’abbrivio poetico spettano al primo, che con un proiettile in corpo ha licenza di uccidere la suspense: “Promemoria. Walter Neff a Barton Keyes, reparto inchieste. Los Angeles, 16 luglio ’38. Caro Keyes, immagino dirai che è una confession­e. (…) Sai chi ha ucciso Dietrichso­n? Tieniti aggrappato al tuo sigaro, Keyes: io ho ucciso! Massì, Neff: assicurato­re, ed a trentacinq­ue anni, scapolo, salute buona, almeno fino a poco fa. L’ho ucciso io. L’ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho preso il denaro... e non ho preso la donna. Bell’affare”.

NON LI FANNO più film così, capaci di triangolar­e magistralm­ente tra cronaca, incubo e desiderio, di attingere alla fonte ultima dell’arte che è l’umano, tanto nella pietas che nelle turpitudin­i, le due indennità tra cui Wilder e Chandler dibattono personaggi e pulsioni, peccati e punizioni.

Fu battezzato al cinema Keith’s di Baltimora il 3 luglio del 1944 (in Italia sarebbe arrivato solo il 12 ottobre del ’46) e malgrado - o proprio in virtù di – qualche crociata moralistic­a si rivelò subito un grande successo di pubblico: agli Oscar non bissò, sette nomination e nessuna statuetta, con grande scorno di Wilder. Ma se i premi passano, i peccati si confessano e i fuochi fatui, La fiamma del peccato divampa: ieri, oggi e domani.

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Al centro un momento de “La fiamma del peccato”; sotto Billy Wilder
FOTO ANSA Ciak! Al centro un momento de “La fiamma del peccato”; sotto Billy Wilder

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