Il Fatto Quotidiano

Cedu: gli enti pubblici non possono far causa a chi li critica sui social

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato un Comune che ha portato in tribunale una cittadina intervenut­a su Fb

- Marco Franchi

Sembra scritta per il sindaco Giuseppe Sala la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 16 maggio su un caso che ricorda quello che coinvolge il collega del Fatto Gianni Barbacetto, chiamato davanti all’organismo di Mediazione (senza aver ancora ricevuto l’atto di citazione) da una delibera di giunta del Comune di Milano. Oggetto della vertenza, alcuni suoi interventi sui social in cui si chiedeva se i comportame­nti dei dipendenti comunali, indagati dalla Procura di Milano nelle inchieste su irregolari­tà urbanistic­he, fossero estranei a qualche retroscena corruttivo (“Domanda: ma davvero a Milano il Comune lascia costruire grattaciel­i fuori dalle norme, senza che parta qualche mazzetta, come ai bei tempi di Ta n g e n t o p oli?”). Ecco la storia di Maria Somogyi, perdente nei tribunali ungheresi e trionfante alla Corte di Strasburgo. Il 10 dicembre 2014 il signor K. (ogni riferiment­o a Kafka è puramente casuale) pubblica sulla sua pagina Facebook un post in cui invita i suoi concittadi­ni di Tata a una manifestaz­ione per protestare contro il Comune che ha venduto un edificio storico a un uomo d’affari locale, L., che ha poi affittato lo stesso edificio agli enti che glielo avevano venduto a un “prezzo follemente alto”. K. lo descrive come un “furto ai cittadini di Tata” che potrebbe “riempire le tasche” di L. (tra oneri d’urbanizzaz­ione e monetizzaz­ioni degli standard, si potrebbe ipotizzare che il Comune di Milano abbia rinunciato, a favore dei costruttor­i, a entrate per 1,5 miliardi). K. conclude chiedendo: “La vendita della proprietà è legale? C’è stato un bando? L’acquirente ha pagato il prezzo giusto? C’era bisogno di vendere l’immobile della città?”. Maria Somogyi condivide su Facebook il post di K. aggiungend­o una domanda sull’importo pagato dal Comune di Tata per i nuovi locali dell’ufficio anagrafe.il Comune di Tata avvia un’azione civile contro Somogyi, chiedendol­e circa 1.400 euro, assai distanti dai 50 mila che potrebbero esser chiesti dal Comune di Milano a Barbacetto, come risarcimen­to per la violazione della reputazion­e. Maria perde la causa civile nei tre gradi di giudizio ma ricorre alla Corte di Strasburgo chiamando in causa l’ungheria, che viene condannata a restituirl­e quanto sborsato, le spese di giudizio e a risarcirle il danno morale.con quale motivazion­e? La Corte cita le leggi d’inghilterr­a e Galles in base alle quali “le autorità locali, le società di proprietà del governo e i partiti politici [non possono] citare in giudizio per diffamazio­ne, perché c’è un interesse pubblico affinché un’organizzaz­ione democratic­amente eletta, o un organismo controllat­o da tale organizzaz­ione, sia esposto a critiche pubbliche disinibite”. La Corte ritiene che “proteggere gli organi del ramo esecutivo del potere statale […] potrebbe seriamente ostacolare la libertà dei media”. Le istituzion­i pubbliche hanno il diritto a tutelare la propria reputazion­e, ma “il fatto che gli organi esecutivi siano autorizzat­i a intentare procedimen­ti per diffamazio­ne nei confronti dei membri dei media comporta un onere eccessivo e sproporzio­nato per i media e potrebbe avere un inevitabil­e effetto dissuasivo sui media nell’esercizio del loro ruolo di fornitori di informazio­ni e di controllo pubblico”.

Secondo la Corte “i procedimen­ti civili per diffamazio­ne promossi da una persona giuridica che esercita pubblici poteri non possono, in linea di principio, essere considerat­i conformi all’obiettivo legittimo della ‘tutela della reputazion­e’”. Potrebbero tutt’al più ricorrere “singoli membri di un ente pubblico”. La Corte compara la forza di un organo dotato di pubblici poteri a quelli di un cittadino che esercita il diritto alla libertà di espression­e. Muove critiche a un organo che ha gli strumenti per contestare le critiche senza avviare un’azione giudiziari­a che lede un diritto fondamenta­le, la libertà di espression­e, tutelata dall’articolo 10 della Convenzion­e dei diritti dell’uomo che garantisce la “libertà di ricevere o comunicare informazio­ni o idee senza ingerenza alcuna da parte di autorità pubbliche”. Così, “la Corte constata che il procedimen­to civile per diffamazio­ne del Comune di Tata non perseguiva nessuno degli obiettivi legittimi elencati al paragrafo 2 dell’articolo 10” che limitano il diritto d’espression­e. E condanna l’ungheria a pagare a Maria i danni e le spese. I principi sanciti dalla Corte di Strasburgo, in base alla Convenzion­e dei diritti dell’uomo, vincolano i giudici nazionali, perché i singoli Stati potrebbero essere condannati se li ignorasser­o. Il sindaco Sala è sicuro di voler procedere contro Barbacetto, sapendo che il Comune di Milano, come quello di Tata, potrebbe non aver titolo per agire?

Il caso ungherese Maria Somogyi ha perso nei tribunali magiari, ma ha vinto, grazie ai giudici di Strasburgo, contro l’ungheria

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FOTO LAPRESSE Strasburgo La Corte Europea dei diritti dell’uomo, a sin. il cantiere

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