Il silenzio dei sovversivi racconta la storia nei suoi angoli più bui
Gli abissi della storia a volte trovano un volenteroso lampionaio dedito alla ricerca, allo studio, al lodevole compito di riportare a galla vicende dimenticate e personaggi rinchiusi nei polverosi cassetti dell’oscurità. La mostra «Sovversivi e sovversive», organizzata nel Chiostro dei Celestini a Bologna e prorogata fino al 19 luglio, è un piacevole concorso di meriti: l’Archivio di Stato, sfruttando l’Art bonus, ha prima avviato una campagna per il recupero e la digitalizzazione dei chilometri di documentazione dedicata alle persone «pericolose per lo stato» e prodotta dal 1861 al 1983, poi il fotografo freelance Michele Lapini ha riempito di senso artistico il lavoro, e le schedature, facendo emergere il lato sociale, tanto angoscioso quanto ancora estremamente attuale, nascosto nelle carte.
È una mostra da vedere (apertura i martedì e i giovedì dalle 16 alle 18), anche perché consente di ammirare lo splendido chiostro da poco riaperto dall’Archivio di Stato. È una mostra da vedere perché riesce a mostrare non solo i volti di questi presunti reietti — schedati e messi all’indice con modalità e strumenti in realtà antichissimi, perfettamente collegati al concetto di marginalità sociale che fin dal medioevo, e anche prima, caratterizzava i rapporti umani nel tessuto urbano — ma soprattutto perché solletica lo stato d’animo del visitatore e ha il pregio di calarlo in un mondo nel quale la libertà era ancora un privilegio. Oggi, così banalizzata, la libertà viene svenduta e strumentalizzata, ma negli scatti e nelle installazioni pensate da Lapini essa è il convitato di pietra, l’assente-presente, e tutto il suo peso si poggia sulle riflessioni che queste fotografie possono suscitare in chi le osserva.
Si accedeva al cerchio dei sovversivi in ogni modo, ma soprattutto per denuncia di qualcuno, e raramente se ne usciva. Durante il fascismo bastava una delazione di una persona «degna di fede» per essere schedati. Fra loro c’era anche Giuseppe Massarenti. «Renato Gherardi», scrive il prefetto al questore di Bologna nell’aprile 1927, è un accanito antifascista, di frequente ripete il motto «delendo fascismo», parla contro l’onorevole Arpinati, sostiene che presto la Russia e la Cina costituiranno una repubblica universale dei soviet, frequenta il Caffè dei Servi e soprattutto dice di essere pronto, se scoppierà una guerra con la Jugoslavia, «a farsi aviatore per gettare bombe su Palazzo Chigi».Con un racconto del genere, la schedatura nella categoria A8 (persone pericolose per la sicurezza dello stato) era automatica. Fotografia, dati personali, professione, impronte digitali, abitudini nel vestire e nel tempo libero. E il confino politico, il silenzio.
Questi documenti sono conservati in Archivio di Stato ma avevano bisogno di restauro: le graffette di metallo avevano danneggiato le immagini e sono state sostituite, i faldoni avevano iniziato a sfilacciarsi e curvarsi. Per conservare questa memoria, nel 2021 l’Archivio aveva lanciato la campagna «Adotta un sovversivo». Ora una mostra spiega perché è fondamentale la cura di questi fascicoli.