Corriere della Sera

Il giudice e quel racconto dal finale incongruen­te

- Di Giusi Fasano

Èvero. In trent’anni un assassino può anche cambiare. Ma c’è un dettaglio in questi trent’anni che è rimasto sempre lo stesso: la morte di Luigia. Lei — Antonella, come la chiamavano tutti — manca oggi esattament­e come mancava quel 6 settembre del 1995, il primo giorno di cui non vide la luce. Manca soprattutt­o a sua figlia Francesca che si dice «piena di speranza», finalmente. Speranza di avere giustizia. Ma la via della giustizia a volte è tortuosa, fa giri strani, si allontana dalla meta invece di tirare dritta. Ora. Ci sta che un giudice non condivida la visione della procura: è il segno dell’indipenden­za fra magistratu­ra inquirente e giudicante. Ma se scrivi 47 pagine di racconto horror per dire che «non c’è dubbio, siamo di fronte a una situazione di estrema gravità, crudeltà e ferocia»; se riprendi i concetti dei consulenti per dire che l’azione è stata «ripugnante, ridondante, sproporzio­nata» perché «non c’era davvero bisogno di realizzare tutto lo scempio commesso, né per rubare né per uccidere». E ancora. Se parli di «overkillin­g» e pensi che l’uso del trapano fu per «arrecare dolore e vederla soffrire fino all’ultimo istante della sua vita». Ecco. Se nell’ordinanza è scritto questo e altro dello stesso tenore poi è strano leggere nelle ultime tre pagine che no, niente carcere, perché non c’è rischio che l’indagato uccida di nuovo poiché «aveva 36 anni, ora ne ha 65» ed è «in astratto una persona diversa». Purtroppo per lui non è diversa l’impronta genetica che lo incastra.

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