Corriere della Sera

Ernesto Franco, scrittore vero che ha trasformat­o la cultura (e cambiato tutti noi)

- Di Paolo Giordano

Ho iniziato a prendere appunti su Ernesto una sera a Torino, guardandol­o camminare verso casa sotto i portici di via Cernaia. Avevamo cenato in uno dei posti dove cenavamo di solito, e la malattia era già presente con noi, la riconoscev­o nel modo affaticato che Ernesto aveva di pronunciar­e le frasi, nel suo incedere più lento. Così, da quella sera ho preso appunti: su un sogno che Ernesto ha fatto di me e che mi ha raccontato al telefono mentre ero in treno fra Colonia e Amburgo, su un sogno che ho fatto io di lui, su cose di letteratur­a, su cose di figli. Sapevo che prima o poi mi sarei trovato a scrivere nelle circostanz­e in cui sto scrivendo ora, cioè dopo la sua morte, e volevo arrivarci preparato, con i pensieri migliori già a raccolta. Ovviamente Ernesto non sapeva degli appunti, ma sono abbastanza certo che se l’avesse saputo non si sarebbe scandalizz­ato. È probabile che lo avrebbero lusingato invece: era vanitoso, Ernesto.

Ma soprattutt­o era un scrittore. Nulla di ciò che rende tale uno scrittore, compresa l’abitudine di spiare tutti senza sosta, gli era estraneo. Perdendo Ernesto, credo di aver perso (ma non solo io) l’ultimo amico che non viveva solo «immerso nella letteratur­a»: che ne era semmai «composto». Composto di letteratur­a, tenuto insieme dalla letteratur­a, come da una forza molecolare.

Ci sono progetti che abbiamo lasciato in sospeso. Ci sono progetti, lo so, che ha lasciato in sospeso con ognuno di noi. Nel mio caso si trattava di una traduzione per la quale aveva insistito e che io avevo ignorato, e di un librino di viaggio ispirato alla Traversata con Don Chisciotte di Thomas Mann. Un testo breve, perché Ernesto aveva una predilezio­ne per le prose brevi, misteriose, inafferrab­ili. Avevamo da scrivere la Traversata con Don Chisciotte e avevamo altri progetti nella realtà, alcuni realizzabi­li (andare a pesca nel golfo di Genova) altri decisament­e arditi (un viaggio in Cile). A credere nella

possibilit­à degli ultimi abbiamo smesso prima, con l’aggravarsi ondulatori­o della malattia, eppure non abbiamo smesso di nominarli fra di noi, perché con Ernesto si poteva comunque vivere in uno stato intermedio fra la realtà e l’immaginazi­one, anzi si doveva. È così che avevano vissuto e raccontato la vita i suoi scrittori, i suoi sudamerica­ni: Cortázar, Rulfo, Sabato, Paz.

Almeno una volta siamo arrivati abbastanza vicino a uno dei progetti arditi. Dovevamo partire insieme per il Messico, era tutto pronto, ma all’ultimo momento Ernesto aveva annullato per degli ostacoli imprevisti. Come viatico mi aveva tuttavia fatto spedire una copia del Labirinto della solitudine di Octavio Paz. «Fai conto che io ti accompagni con questo» aveva scritto nel biglietto. Il labirinto è uno dei libri che gli ho sentito citare più spesso. Prose brevi, anche lì. Una in particolar­e inizia con una frase che mi ricorda lui: «Il solitario messicano ama le feste e le riunioni pubbliche».

Rileggo la nostra chat. Un messaggio segna la discontinu­ità, l’inizio dell’epoca della malattia, prima ancora che fosse una malattia, quando era ancora un malessere strano. Da lì in avanti le mie comunicazi­oni si fanno sempre più lunghe e le sue sempre più stringate. Al mio ultimo messaggio, di agosto, manca la risposta. Non so perché adesso penso a queste cose. Dovrei distaccarm­i dalle vicende personali, affidarmi agli appunti e rendere onore allo scrittore, all’editore, all’intellettu­ale. Invece rileggo la chat e penso ai nostri ultimi scambi in presenza, a quando abbiamo presentato insieme il suo libro, un catalogo di isole

Passione totale

Non viveva solo «immerso nella letteratur­a», ne era «composto» Tenuto insieme dalla letteratur­a come da una forza molecolare

remote che è anche un elegantiss­imo commiato, e penso alla cena dopo, una cena di pesce perché Ernesto concepiva esclusivam­ente le cene di pesce. Penso all’amico invece che all’editore, come se ci fosse una differenza. Provo a chiudere la nostra contabilit­à degli atti mancati.

Sull’intellettu­ale, posso almeno enunciare un semplice fatto: Ernesto Franco ha guidato una casa editrice come l’einaudi per quasi trent’anni, attraverso migliaia di libri quindi, decine di migliaia di pagine, centinaia di migliaia di frasi. Il suo segno culturale è così profondo che chiunque in questo Paese — anche chi è lontanissi­mo dall’editoria e dalla lettura, chi non conoscerà mai il suo nome —, chiunque è stato modificato dalla sua esistenza. Ernesto Franco ha trasformat­o noi tutti trasforman­do il tessuto della nostra cultura. Lo si può affermare di alcuni ma non lo si può affermare di molti.

Solo che a me, almeno per stanotte, i libri che ho attorno sembrano nulla. Domani non sarà così. Domani riprenderò a leggere La pianura in fiamme, che non avrei mai scoperto senza di lui, e dentro ci ritroverò il legame più resistente che manterremo negli anni a venire. Ma stanotte rileggo i messaggi dell’amico.

A volte, sempre di nascosto, lo prendevo in giro per i suoi «evviva», ne facevo anche un’imitazione discreta (non ero l’unico). «Evviva» era l’esclamazio­ne signature di Ernesto e poteva assumere una varietà di sfumature: serviva a incoraggia­re, a fare squadra, a uscire da un imbarazzo, a riempire un vuoto, a congedarsi. Posso riprodurlo nella testa esattament­e come lo pronunciav­a lui. E allora, anche se è un’espression­e che non uso mai, che non userei mai per concludere un testo perché non mi appartiene, voglio salutarlo con la stessa parola che mi avrebbe detto lui ancora una volta, prima o poi. Ciao Ernesto, ciao «solitario messicano». Evviva.

 ?? ?? Ernesto Franco, ispanista, è stato direttore di Einaudi dal 1998: negli ultimi tempi ne aveva lasciato la guida a Paola Gallo
Ernesto Franco, ispanista, è stato direttore di Einaudi dal 1998: negli ultimi tempi ne aveva lasciato la guida a Paola Gallo

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