Corriere della Sera

«Mio padre Luigi Eroico, mi salvò dalla droga»

La figlia Francesca gli dedica un film. Tra infanzia da fiaba e ribellioni

- Da uno dei nostri inviati Stefania Ulivi

” Sento un legame pazzesco con quest’uomo che ammiro profondame­nte E credo sia stato dimenticat­o troppo in fretta

Si intitola Il tempo che ci vuole l’ultimo film di Francesca Comencini, fuori concorso alla Mostra (dove nel 1984 vinse il premio De Sica con l’opera prima, Pianoforte) e in sala dal 26 settembre. Per lei ce n’è voluto molto per trovare la forza e il modo di raccontare il suo rapporto con il padre Luigi, scomparso nel 2007. L’autore di capolavori senza tempo da Pane, amore e fantasia al Pinocchio televisivo. Un’infanzia da fiaba declinando a due voci la grammatica della fantasia, la ribellione dell’adolescenz­a, il rischio di perdersi, la ripartenza con il cinema a fare da collante.

Quanto ci è voluto?

«Ho dovuto aspettare molto per sentirmi all’altezza di un film così difficile. E per sentirmi libera dal punto di vista umano da tante cose che avevo attraversa­to. La spinta è arrivata dal lockdown, con l’ansia che pervadeva i nostri giorni. Con i cinema chiusi e l’idea che qualcosa che era stato così presente nella mia vita e ancora di più in quella di mio padre potesse andare perso. Ho cominciato a inciampare nei ricordi e a scriverli. Determinan­te è stato aver fatto leggere la sceneggiat­ura a Marco Bellocchio».

Perché?

«Mi serviva il parere di qualcuno di cui mi fido ciecamente. È un maestro, un essere umano speciale. Mi ha detto non solo che il film c’era, ma che lo avrebbe prodotto».

Da cosa nasce la scelta di isolare solo il padre (Fabrizio Gifuni) e la figlia (da piccola Anna Mangiocava­llo, da adulta Romana Maggiora Vergano), lasciando fuori il resto della famiglia?

«L’ho scritto nel modo in cui procedeva la mia memoria, come un teatro sempre aperto in cui rimetti in scena dei momenti mai dimenticat­i. Li ho ricostruit­i isolando in una maniera esclusiva questi faccia a faccia con mio padre. E i suoi set che erano caotici, carnali, pieni di umanità».

È anche un omaggio a un uomo di cinema unico, in cui il carattere sembra essersi fuso con quello dell’artista?

«Certo. Il suo modo di essere si riflette nel suo lavoro. Per lui fare cinema è stata una scommessa difficile. La sua famiglia è emigrata in Francia quando aveva sei anni. È stata una lotta vera riuscire a fare della sua passione il suo lavoro non sentendosi mai completame­nte all’altezza. Il suo impegno alla Cineteca di Milano per salvare i film muti, il mestiere da critico cinematogr­afico, i suoi film. È stato un uomo forte, mai arrogante. Come mai è arrogante il suo cinema, pieno di rispetto delle persone. Con una predilezio­ne per i personaggi più fragili, come bambini, quelli che la vita ha preso più a schiaffi»

Quando capì che avrebbe fatto la regista le consigliò di evitare l’autobiogra­fia. Ha disubbidit­o.

«Sempre. Ma in questo caso, sono molto contenta di averlo fatto perché sono fiera di averci meso un’intensità emotiva altissima. Sento un legame pazzesco con quest’uomo che ammiro, che amo. E credo sia stato dimenticat­o troppo di fretta».

Quanto coraggio ci è voluto per raccontare l’incontro con la tossicodip­endenza?

«L’ho fatto perché appartiene alla relazione tra mio padre e me. Ho ammirato il modo in cui lui, con estremo coraggio, pur essendo di una generazion­e che non poteva neanche minimament­e contemplar­e tutto questo, col senso di delusione e di fallimento che questa mia condizione gli provocava, ha avuto la forza di sporcarsi le mani, di guardarla in faccia. E in questo modo mi ha salvato la vita. Il suo coraggio e il suo non giudizio sono stati una prova di integrità e amore».

Cosa le hanno detto le sue sorelle, Cristina, Paola (scenografa del film), Eleonora?

«Mi hanno sostenuta sempre, in un modo incredibil­e. È stata un’altra dimostrazi­one dell’amore che ci lega. Credo che tutte abbiano sentito anche l’importanza nel raccontare delle cose critiche della mia vita di levare lo stigma, la vergogna. Un modo di dire può succedere, non va minimament­e sminuito, né ci sono ricette perché ognuno ha le sue. Però se ne può uscire, come dice il personaggi­o del padre alla figlia. A testa alta».

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Insieme Da sinistra, Fabrizio Gifuni, la regista Francesca Comencini e Romana Maggiora Vergano ieri al Lido alla presentazi­one fuori concorso del film «Il tempo che ci vuole», nelle sale dal 26 settembre
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Sul set Anna Mangiocava­llo e Fabrizio Gifuni sono Francesca e Luigi Comencini in «Il tempo che ci vuole»

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