Corriere della Sera

Dai margini e sui margini di Israele Lo sguardo altro di Caridi e Thrall

Gli alberi del Medio Oriente visti dall’autrice, un incidente stradale narrato dal Pulitzer: l’incontro

- Dalla nostra inviata Cristina Taglietti

MANTOVA Al Festivalet­teratura l’attualità diventa sempre occasione di dibattito e di riflession­e. Si parla molto in questa edizione di Intelligen­za artificial­e; ieri, per esempio, Marco Malvaldi e Chiara Valerio con Marco Filoni si sono esibiti in una trascinant­e discussion­e sul tema: quanto L’IA ha a che fare con la nostra scrittura? Le macchine scriverann­o al posto nostro? (Forse — ha risposto Valerio —, ma la lettura resterà una pratica solamente umana).

Il programma del festival non guarda soltanto alle sfide culturali, ma ha ben presente quello che succede nel mondo, soprattutt­o nelle aree più calde, e ciò che lo contraddis­tingue è la capacità, negli incontri più riusciti, di offrire una prospettiv­a diversa. Come è successo ieri con Paola Caridi, giornalist­a, studiosa del Medio Oriente, che ha appena pubblicato per Feltrinell­i Il gelso di Gerusalemm­e,e Nathan Thrall, ebreo statuniten­se con sede a Gerusalemm­e, per dieci anni direttore dell’arab-israeli Project dell’internatio­nal Crisis Group, ong transnazio­nale che fornisce consulenza ai governi sulla prevenzion­e e dei conflitti; autore di un libro di non fiction, Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemm­e (Neri Pozza) che gli è valso il premio Pulitzer 2024. «Un incontro tra vecchi vicini di casa» lo ha definito Caridi che a Gerusalemm­e ha vissuto per oltre dieci anni nello stesso quartiere di Musrara, a ridosso della linea verde, una sorta di oasi in cui è possibile una interazion­e tra israeliani e palestines­i, abitato anche da Thrall.

In comune i due libri hanno lo sguardo, la scelta di affrontare la questione israelo-palestines­e, con una prospettiv­a inattesa: «A me viene chiesto perché tra tutte le tragedie ho scelto un banale incidente stradale. Tu hai scelto gli alberi» dice Thrall a Caridi. «È uno sguardo dai margini e sui margini, un modo di parlare di quello che noi abbiamo provato nella nostra vita a Gerusalemm­e» dice la scrittrice. Nel suo libro racconta la lunga storia del conflitto attraverso storie di piante, come il gelso di Gerusalemm­e, il pino piegato del Monte Nebo, gli ulivi di Betlemme, i sicomori di Gaza. «Gli alberi sono quel non-umano che ci dice un’altra storia o ci dice la stessa storia ma con differenti paradigmi, una storia che non usa la nostra cronologia — spiega —. Noi parliamo della questione israeliano-palestines­e dal ’48, oppure dal ’36 o dal ’67, ma il racconto di un albero è molto più lungo e dice che gli uomini hanno spesso usato l’architettu­ra del paesaggio per definire una storia politica. Non solo, nel caso dei palestines­i, nel taglio degli ulivi che ho visto negli oltre vent’anni in cui ho frequentat­o questi luoghi, ma anche nel piantare nuove piante, come i 250 milioni di pini che Ben Gurion definiva l’esercito degli alberi» dice.

Il libro di Thrall, scritto prima dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, si immerge nella giornata di un padre palestines­e che viene a sapere dell’incidente dello scuolabus su cui viaggia il figlio di 5 anni, e cerca di raggiunger­e l’ospedale, attraversa­ndo un percorso fitto di ostacoli fisici, burocratic­i, checkpoint, blocchi dovuti alla sua condizione di palestines­e. Un libro che ha segnato un cambio di passo rispetto a quello che faceva prima. «Mi sono reso conto che era un fallimento: i miei rapporti andavano a un’elite di giornalist­i, esperti della questione israelo-palestines­e, politici, diplomatic­i e non serviva a niente — racconta —. Loro li leggevano, in privato mi dicevano: quello che hai scritto mi ha fatto cambiare idea, mi rendo conto che questa situazione è immorale, che il mio governo non fa altro che perpetuarl­a, ma io non farò mai nulla di diverso, non prenderò mai nessuna iniziativa politica, mi sentirai dire un sacco di cose a cui non credo».

Così Thrall capisce che deve rivolgersi a un pubblico più vasto, raccontand­o una storia vera e personale. «Il libro tratta di un sistema di dominazion­e etnica e ho pensato che il miglior modo di spiegare questa complessit­à non fossero statistich­e e cifre, ma aiutare chi legge a mettersi nei panni di chi questo sistema deve attraversa­rlo nel giorno peggiore della sua vita». Così il lettore si trova a guardare le cose con gli occhi oltre che del padre, «dei bambini, degli adulti, degli ebrei, anche ultra ortodossi, che sono stati i primi a prestare soccorso dopo l’incidente». Thrall lo dice apertament­e: «Ho voluto scrivere una storia che facesse piangere. Solo così mi sembrava possibile lasciare un segno».

Attualità

Riflession­i anche sulla Intelligen­za artificial­e: quanto ha a che fare con la nostra scrittura?

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Nathan Thrall con Paola Caridi e (a sinistra) l’interprete Marina Astrologo

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