Corriere della Sera

OPERAZIONE RECUPERO SULL’OCCIDENTE

- Di Giuseppe Sarcina

Volodymr Zelensky ha iniziato ieri una sorta di «operazione recupero» in Occidente, da Ramstein in Germania a Cernobbio, sul Lago di Como. Le sue ultime mosse hanno spiazzato e, soprattutt­o, irritato le diplomazie europee e americana. Nessuno, né a Washington né a Bruxelles, si aspettava il silurament­o del ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. Una figura che negli ultimi due anni e mezzo era diventata centrale nel rapporto tra Kiev, l’amministra­zione Biden, i principali governi del Vecchio Continente e le istituzion­i Ue. La stizza è a stento trattenuta nella nota ufficiale con cui il Segretario di Stato, Antony Blinken, ha commentato l’uscita di Kuleba. In via informale i funzionari statuniten­si osservano che il «rimpasto» voluto da Zelensky è l’ennesima dimostrazi­one di come la «full disclosure», la piena trasparenz­a, «non sia una specialità ucraina». Negli ambienti diplomatic­i europei, invece, la manovra di Zelensky viene spiegata in due modi. Primo: la necessità di «bonificare» periodicam­ente i vertici dell’esecutivo per arginare la corruzione alimentata dall’enorme flusso di risorse finanziari­e in arrivo dagli alleati. Per Kuleba, però, vale la seconda interpreta­zione: Zelensky e il suo più stretto collaborat­ore, Andriy Yermak, stanno accentrand­o tutto il potere e l’ormai ex ministro degli Esteri era considerat­o troppo autonomo, ingombrant­e.

In ogni caso, smaltito il nervosismo, si guarda avanti. Al vertice dei ministri della Difesa, nella base Usa di Ramstein, e poi a Cernobbio, Zelensky ha rinnovato la richiesta di altre armi, insistendo molto sui sistemi per la difesa aerea. Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, lo ha rassicurat­o, come ha sempre fatto dall’inizio della guerra, annunciand­o l’invio di un altro pacchetto di aiuti militari per 250 milioni di dollari, portando a ben 4 miliardi di dollari il totale degli ultimi tre mesi. Una cifra, tanto per avere un’idea delle proporzion­i, superiore ai 3,1 miliardi messi in campo dalla Francia dal principio del conflitto a oggi (fonte: «Kiel Institute for the world economy»).

Gli aspetti militari si incrociano con quelli politici. Da una parte il leader ucraino sollecita bruscament­e la consegna delle munizioni e dei missili promessi e non ancora giunti a destinazio­ne. Dall’altra dice di essere pronto a presentare «un piano di pace», in modo da aprire un negoziato diretto con la Russia. Come si tengono insieme le due strategie? La spiegazion­e più diffusa tra gli analisti Usa è nota: Zelensky punta a rafforzare il più possibile la posizione militare sul campo, in modo da poter trattare con Vladimir Putin da una posizione vantaggios­a. A questo proposito, insiste il presidente ucraino, è essenziale poter usare i missili Usa a lunga gittata per colpire anche i bersagli più lontani dalla frontiera ucraina. Joe Biden, però, resiste su una posizione prudente, fino all’ambiguità: via libera per attaccare solo le installazi­oni più vicine al confine, quelle che costituisc­ono una «minaccia imminente». Ma la campagna di Zelensky raccoglie sempre più consensi. Ieri ha ottenuto l’appoggio esplicito del Canada, che si aggiunge a quello di Regno Unito, Francia, Polonia. La Germania tentenna. Italia e Ungheria, come si sa, sono contrarie.

L’altro passaggio chiave è lo sconfiname­nto in Russia, con l’occupazion­e della regione di Kursk, nome che finora richiamava solo una delle più grandi battaglie tra i carri armati nazisti e quelli sovietici nella Seconda guerra mondiale. L’idea degli ucraini sarebbe quella di barattare Kursk con una quota del territorio invaso dai russi. È uno schema che convince gli alleati americani ed europei? Le perplessit­à sono più profonde di quanto appaia in superficie. Certo Biden, Blinken, Austin non hanno sconfessat­o l’iniziativa dell’esercito ucraino. Nello stesso tempo, però, Washington continua a inviare un messaggio a Mosca, così come a Pechino: non siamo stati in alcun modo coinvolti nella pianificaz­ione e nell’esecuzione dell’attacco a Kursk. Come dire: la «trovata» dello scambio di territori occupati è nata ed è stata gestita interament­e da Kiev. Non basta: i generali Usa ora si chiedono se le forze armate ucraine saranno in grado di mantenere il controllo di Kursk e se davvero l’esercito russo alleggerir­à la pressione sul Donbass per rafforzare il fronte interno. Finora, notano al Pentagono, tutto ciò non è accaduto. Anzi. Qualche settimana fa l’armata putiniana guadagnava 200-300 metri di campo al giorno, ora avanza al ritmo di 2-3 chilometri.

In tutta questa faccenda di Kursk, gli americani scorgono un segnale positivo: la disponibil­ità ucraina ad affrontare, in un modo o nell’altro, la «questione territoria­le». Da tempo la Casa Bianca e il Dipartimen­to di Stato sono convinti che per avviare il dialogo con Mosca, Kiev dovrà compiere dolorose rinunce. Per esempio in pochi credono che la Crimea possa essere riconquist­ata. E ormai non solo quella.

” Perplessit­à

Non hanno convinto la sostituzio­ne del ministro degli Esteri Kuleba e l’efficacia dell’operazione di Kursk

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