Corriere della Sera

Joussef, il 18enne morto carbonizza­to nel carcere sovraffoll­ato

Milano, il rogo volontario a San Vittore. Indagato anche il compagno di cella. Polemica dei sindacati

- C. Giu.

MILANO Non sapeva leggere né scrivere. Era arrivato in Italia dopo una drammatica traversata su un barcone e il suo Eldorado non è mai stato felice. Joussef Barson è morto l’altra notte carbonizza­to in una cella del carcere di San Vittore, il più sovraffoll­ato d’italia: 749 posti, 1.094 detenuti. Una tragedia che rialza la tensione (e le polemiche) sull’intero sistema carcerario.

Il 18enne egiziano era rinchiuso da luglio (in custodia cautelare) con l’accusa di rapina. Secondo una prima ricostruzi­one tutto sarebbe avvenuto intorno alla mezzanotte di giovedì quando sono state segnalate fiamme in una cella. Le urla del compagno, poi il rogo che avvolge coperte, materasso e il corpo del 18enne. L’ipotesi è di un gesto volontario, un suicidio. Ma la procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo affidato al pm Carlo Scalas. E il compagno di cella è indagato in vista delle consulenze che dovranno chiarire come sono andate realmente le cose. Non si esclude che l’incendio sia stato appiccato durante un’iniziativa di protesta, anche perché la vittima avrebbe tentato di spegnere le fiamme con l’acqua del bagno.

Un episodio che, come ha sottolinea­to Gennarino De Fazio (Uilpa penitenzia­ria), «mette ancora una volta a nudo la crisi senza precedenti del sistema carcerario». Il 18enne era stato assolto per due volte, quando era ancora minorenne, dalla stessa accusa di rapina per un vizio totale di mente. Una perizia psichiatri­ca aveva certificat­o che non poteva stare in una prigione. Per questo i giudici del Tribunale dei Minori avevano disposto una misura di sicurezza in una comunità terapeutic­a ritenendol­o «socialment­e pericoloso». Ha «necessità di un contesto altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate in cui è da ritenersi essenziale un’adeguata terapia farmacolog­ica».

«A 15 anni era finito in un campo di concentram­ento in Libia, esposto continuame­nte alla violenza», ha spiegato l’avvocato Monica Bonessa che lo ha assistito nei primi due processi. «Era arrivato in Italia su un barcone con mani e piedi legati. Un’esperienza di cui lui non riusciva nemmeno a parlare». L’avvocato Marco Ciocchetta, che lo assisteva adesso, aveva richiesto una perizia psichiatri­ca con la formula dell’incidente probatorio. «La struttura carceraria, in ogni caso, aveva già ricevuto tutta la documentaz­ione su di lui. Quello che ci lascia un po’ perplessi — ha detto il legale — è che una persona di questo tipo, con evidenti problemi psichici, non sia stata attenziona­ta diversamen­te».

L’ordine degli avvocati e la Camera penale di Milano chiedono un intervento urgente del governo «sull’emergenza carceri», mentre l’associazio­ne Antigone invoca «una commission­e parlamenta­re d’inchiesta». Da gennaio il bollettino parla di 69 suicidi e altre 104 morti tra le persone detenute e 7 suicidi tra gli agenti.

Su un barcone

In Italia con un barcone, a 15 anni era finito in un campo di reclusione in Libia

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