Da Savonarola a quelli televisivi e digitali: un excursus sui falò
Il falò è diventato uno dei momenti più significativi della nostra tv, da quando attorno alla sua luce si discute di corna. Come un tempo succedeva in molte spiagge italiane, a fine estate, per accendere i primi amori. Il falò non è un fuoco disciplinato, si esprime attraverso una certa forza selvaggia. Ci sono stati falò moralizzatori come i «falò delle vanità» della Firenze di Savonarola, in cui venivano bruciati migliaia di oggetti considerati peccaminosi: specchi, cosmetici, vestiti di lusso, arpe, cetre, chitarre, liuti, ciaramelle, cornamuse, flauti, ghironde, vielle, e ancora dadi, profumi, carte da gioco, libri immorali, dipinti. Per non parlare degli autodafé (atto di fede), i roghi in cui venivano bruciati i libri, una delle tante bestialità esaltate del nazismo. I falò televisivi bruciano solo promesse, lacrime e parole. Leggo ora che sono in grande ascesa i falò digitali (digital campfire): «luoghi intimi dov’è possibile incontrarsi in piccoli gruppi caratterizzati da amicizie profonde, interessi comuni o esperienze condivise». Ne scrive Andrea Daniele Signorelli su «Link – Idee per la tv», spiegando che la rete si sta polarizzando: da un lato il ritorno del broadcast (i social network stanno diventando dei social media), dall’altra comunità piccole e private.
Dove vengono accesi questi falò? Nelle classiche piattaforme di messaggistica come Whatsapp e dai gruppi creati al loro interno, nelle micro comunità di Facebook e (trascrivo sempre da Signorelli) nelle piattaforme che