Nadal vecchio re senza terra
Lo spagnolo si arrende in due set sul suo campo preferito Djokovic continua a inseguire la vittoria all’olimpiade La sfida di ieri potrebbe essere stata l’ultima tra i due giganti
PARIGI Hanno cominciato a studiarsi nel 2006. Quando Romano Prodi vinceva le politiche alla testa dell’unione, Giorgio Napolitano veniva eletto presidente della Repubblica, l’italia di Lippi sbranava il Mondiale in Germania e Roger Federer conquistava per il quarto anno consecutivo il torneo di Wimbledon, già avviato sulla strada del suo stesso mito. Un’altra era geologica, un altro mondo, un altro tennis. L’era degli Immortali, i Big Three.
Di quei dinosauri sopravvissuti alla pioggia di meteoriti di Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, qui a Parigi ne rimangono due. Si sono affrontati ieri al Roland Garros per la sessantesima volta (la prima in assoluto nei quarti del Roland Garros 2006, appunto) ma non è stata una partita di tennis. È stata l’abdicazione dell’uomo che su questi campi ha edificato la sua leggenda: 14 dei 22 titoli Slam di Rafa Nadal sono stati vinti su questo stesso rettangolo di polvere di mattone, il perimetro dentro il quale all’olimpiade
Resto al Villaggio, sennò che Olimpiade sarebbe? Non so cosa farò, ma so che affrontare Novak senza le gambe di 20 anni fa è impossibile
Djokovic Ci siamo affrontati per la prima volta nel 2006, credo che nessuno di noi due avrebbe pensato che ci saremmo ritrovati qua nel 2024 per l’olimpiade
è sembrato impotente, a volte scoraggiato, di certo in riserva di benzina. D’altronde quell’altro, quel demone di nome Novak Djokovic che di Roland Garros in carriera se ne è annessi tre su 24 Major (l’australia e Wimbledon sono i terreni d’elezione del serbo), questo stadio lo conosce a memoria. Non c’è nulla di questo ambiente e di quel rivale, Rafael Nadal da Manacor, isola di Maiorca, che il Djoker non sappia decodificare con l’efficacia del suo gioco, l’elasticità della sua copertura del campo, la sapienza della sua mente superiore. Ricompare la ginocchiera, a protezione del menisco destro operato a Parigi dopo il ritiro dal torneo che consegnò aritmeticamente la vetta della classifica mondiale a Sinner (correva il 10 giugno 2024, pare passato un secolo), però l’eroe di Belgrado è sostenuto da una motivazione suprema. Fare un’altra cosa, l’ennesima, che nemmeno al maestro svizzero, in carriera, è mai riuscita: vincere la medaglia d’oro in singolare all’olimpiade (Federer ce l’ha, però solo in doppio).
In nome di questo obiettivo che quest’anno ha messo davanti a qualsiasi altro risultato, Djokovic all’inizio è tanto attento quanto Nadal impreciso, nessuna palla è giocata a caso contro l’arcirivale che ha battuto 31 volte (contro 29), la striscia di match che racconta una rivalità più lunga addirittura di Federernadal
(40 sfide, 16-24), che pure è il metro di misura di ogni nostra fantasia. Novak conosce a menadito il gancio mancino di Rafa e la sua diagonale di dritto per aver a lungo frequentato entrambi, e possiede l’antidoto per disinnescarli. Nel primo set non c’è tennis. 6-1 Djokovic. Certo programmando il secondo turno più nobile del tabellone olimpico sul centrale all’ora di pranzo, sotto il solleone, non hanno fatto un favore a Nadal, che aveva finito di giocare con Fucsovics nella tarda serata di domenica. Ma nel secondo set, sotto 4-1, l’hidalgo si aggrappa all’orgoglio, ha rigurgiti del vecchio Nadal non supportati dalla forma fisica («Mi è mancata la qualità dei colpi e dei movimenti: affrontare Novak senza le gambe di vent’anni fa è impossibile»), risale 4-4, poi ripiomba nei limiti attuali e cede il servizio alla quarta palla break. Comme d’habitude, il Djoker non aspetta l’errore dell’avversario: si prende tutto con una palla corta su cui solo due anni fa Rafa si sarebbe avventato, ma questo signore spagnolo che alla cerimonia d’apertura trasportava la torcia olimpica con l’andatura incerta di un sessantenne artritico nemmeno ci prova.
Finisce 6-1, 6-4. Nadal ci rimanda a fine Giochi («Solo in quel momento prenderò una decisione sul mio futuro») e salva il punteggio — l’onore non è in discussione —, Djokovic il sogno dell’oro. A Rafa, che rimane al villaggio («Sennò che Olimpiade sarebbe?»), resta il doppio con il nipotino Carlos Alcaraz, che dall’antenato ha ereditato, tra le altre qualità, l’afflato per un evento quadriennale chiamato Olimpiade, che non dà punti per il ranking e ti costringe a infilare la terra tra l’erba e il cemento americano, però regala umanità a manciate.
La foto dell’abbraccio a rete tra guerrieri madidi e attempati, che riconoscono il valore l’uno dell’altro, è da collezione. Ci ha provato, a 38 anni e con mille cerotti, Rafa. Ma il Roland Garros a cinque cerchi, così diverso dal torneo senza i marchi dei Giochi, non è più la sua terra. Comunque finisca la sua straordinaria avventura nel tennis, qui gli sopravvive una statua che lo raffigura nel pieno dell’azione. L’olimpiade va avanti senza Nadal, per i monumenti ci sono le piazze.
Rivalità
Il 60° faccia a faccia di una rivalità senza eguali è un’abdicazione non una partita