Corriere della Sera

Scholz, cancellier­e depotenzia­to in un Paese che non lo segue più

- Dalla nostra corrispond­ente a Berlino Mara Gergolet

La domanda ora è se Olaf Scholz abbia mai avuto una chance di essere un buon cancellier­e. Perché è indubbio che la Germania che ha ereditato si è trovata in mezzo al cataclisma. Il teorema su cui si è basata per vent’anni — export in Cina e nel mondo libero, mentre l’industria era sostenuta dal gas russo a basso costo — è andato in frantumi con l’invasione di Putin dell’ucraina. Il governo nasceva frammentat­o, mentre il Paese inchiodava sulla crescita zero. A quella iniziale domanda si può quindi rispondere in modi opposti, a seconda di quanto si è clementi. E la differenza sta nel ritenere Scholz un uomo sfortunato o un politico mediocre.

Il cancellier­e è tornato da Borgo Egnazia, dove ha festeggiat­o 66 anni e dove la sua squadra (più Ursula von der Leyen) gli ha portato una torta a mezzanotte precisa del 14 giugno. Ma non ha mai lasciato con la testa Berlino, dove un giorno prima di partire per la Puglia ha dovuto subire un umiliante processo di partito. Per tre ore la sua linea è stata «esaminata», e lui è rimasto in sala a sentire tutti i 44 interventi. Così fuori dalle righe, quella riunione, che diversi esponenti Spd l’hanno poi ritenuta eccessiva e sbagliata. Ma Scholz non sarebbe Scholz se non avesse la somma virtù del grande incassator­e. E non ha battuto ciglio.

Si spiega anche così, guardando agli affari di famiglia, la frase che ha detto su Giorgia Meloni al termine del G7. «Non è un segreto che Meloni sia di estrema destra. Ci sono differenze politiche che sono abbastanza ovvie e ciò significa anche che lavoriamo in famiglie di partito molto diverse». Poi ha ripetuto il mantra dell’spd e di tutto il gruppo socialista: «Quando si parla di Europa, credo che sia molto importante che il futuro presidente della Commission­e possa contare sui partiti democratic­i tradiziona­li del parlamento europeo, i popolari, i socialdemo­cratici e i liberali». Quello che a Roma è stato visto come uno sgarbo, e una chiusura a Meloni, un «no» ad accettare esplicitam­ente FDI tra i grandi elettori di von der Leyen, però — se letto con gli occhi tedeschi — è invece una rassicuraz­ione al proprio partito. Una linea rossa che Scholz garantisce ai suoi che non varcherà.

Non c’entano quindi i rapporti personali con Giorgia Meloni, perché a livello personale sembra esserci una chimica migliore che con Macron. Ma Scholz si muove nel suo recinto. Stasera, alla cena dei primi ministri a Bruxelles, appoggerà Ursula von der Leyen, del partito popolare.

Come un pugile Non sarebbe lui, se non avesse la somma virtù del grande incassator­e

Senza entusiasmo, ma perché non ci sono alternativ­e. Nessuno degli invitati al tavolo, d’altronde, ha energia per improvvisa­re un colpo di scena. Hanno appena la forza, lui e Macron, di confermare quello che è approntato sul menù. Mentre il peso di Berlino da mesi si diluiva nelle decisioni a Bruxelles (i tedeschi non sono per esempio riusciti a impedire i dazi alle auto elettriche dalla Cina, nonostante le producano lì anche loro), occorre ricordare che Scholz non è Merkel. Non gli manca solo la favolosa abilità della cancellier­a di ricomporre le controvers­ie come in una teoria dei giochi. A Scholz manca anche quel «potere assoluto», mai esibito ma molto reale, che aveva accumulato Merkel: controllav­a senza sbavature il partito Cdu, il Bundestag, il governo tedesco, la Commission­e Ue e sedeva di persona nel suo Consiglio. Muoveva queste leve in simultanea, in un effetto domino, finché le decisioni non si allineavan­o. Da qui nasceva l’«egemonia tedesca», o meglio merkeliana sull’europa per 16 anni. Scholz, di queste leve, non ne ha ereditata neanche una. A fatica controlla il partito. Forse Napoleone Bonaparte lo annoverere­bbe tra i generali «non fortunati», a cui non affidare mai il proprio esercito.

La Germania, però, non è la Francia. Per quanto impopolare sia il governo semaforo, per quanto l’est sia un buco nero d’estremismo di destra, la politica tradiziona­le tiene. L’afd è al 15,9% e non ha nessuna reale possibilit­à di arrivare al potere a Berlino. Cadesse il governo, si tornerebbe alla classica alternanza.

Scholz ha due scogli da superare. Il bilancio da presentare entro il 3 luglio, sul quale le trattative con i liberali «rigoristi» sono molto complicate. E poi le elezioni a settembre, dove nell’est vincerà dappertutt­o l’afd. Un conto è saperlo in astratto, un altro però sarà vederlo. E sarà in autunno che Scholz dovrà contenere la rivolta degli alleati e degli scontenti della Spd.

Due sole volte un cancellier­e tedesco è stato «defenestra­to». Successe a Ludwig Erhard (Cdu), il padre dell’economia sociale di mercato nel 1966, e al più carismatic­o dei politici Spd, Willy Brandt, nel 1974. Scholz però terrà duro. La Cdu gli sta lanciando segnali di sostegno. Il suo segretario Carsten Linneman ha detto che sono pronti a votare tutte le leggi d’importanza nazionale al Parlamento: larghe intese. E se il carattere e la storia personale di Scholz sono di qualche indicazion­e — «resistere, resistere, resistere» è il suo motto comprovato — vorrà arrivare alla fine. Per dare alla Spd una chance, tra 15 mesi, di rifare quel che con Merkel ai «compagni» riusciva bene: essere il junior partner della Grande Coalizione.

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Olaf Scholz, 66 anni, durante la sessione della Conferenza di Pace sull’ucraina in Svizzera con i rappresent­anti di 92 Paesi
(foto Ap) In crisi Olaf Scholz, 66 anni, durante la sessione della Conferenza di Pace sull’ucraina in Svizzera con i rappresent­anti di 92 Paesi

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