Corriere della Sera

Elephant man e mister Wilde Conversazi­oni (im)possibili

- di Elisabetta Rosaspina

«C’è nessuno?», «C’è…nessuno?»: pare di sentire le assi del vecchio palcosceni­co da baraccone scricchiol­are sotto i piedi esitanti di Oscar Wilde, inzacchera­to dalla pioggia e dal fango. Il poeta ha 46 anni, una fama prestigios­a distrutta dagli scandali, e ancora pochi giorni da vivere. Nella semioscuri­tà di quel rifugio provvisori­o dal maltempo autunnale, nella periferia parigina, scoprirà di non essere solo.

Rintanato nel buio c’è qualcuno che afferma di aver interpreta­to il ruolo principale della farsa più tragica di Wilde, Il ritratto di Dorian Gray. E faceva proprio la parte del ritratto, colui che invecchia e si deforma di pari passo con le malefatte del suo fatuo, immarcesci­bile modello. Fino a diventare una creatura orrenda. Senza trucco e senza inganno. Perché chi gli parla da quell’antro ammuffito si presenta come Joseph Merrick, l’uomo Elefante, celebre «mostro» inglese dell’epoca vittoriana. Magari non è vero. Ma, a quel punto, è tardi.

Da quel colpo di scena, a pagina 22, diventa difficile staccarsi, fino all’ultima delle 145 pagine totali, dal nuovo romanzo del commediogr­afo triestino Furio Bordon, Il poeta e il suo mostro, edito da Sellerio. Il lettore diventa spettatore, prigionier­o del teatro in disarmo e del dialogo fitto, a tratti complice e a tratti ruvido, tra lo scrittore di Dublino e l’inguardabi­le storpio di Leicester.

Non importa che quell’incontro fosse storicamen­te impossibil­e, perché l’uomo Elefante, la cui esistenza è stata narrata dal chirurgo Frederick Treves e, molto tempo dopo, dal drammaturg­o Bernard Pomerance e dal regista David Lynch, era morto da oltre dieci anni nell’autunno del 1900, quando è ambientato il racconto di Bordon.

Non importa perché nulla di ciò che i due «quasi amici» si svelano reciprocam­ente è inventato. Fatti, nomi, circostanz­e. L’autore arriva al cuore delle rispettive traversie, i peccati della carne di Oscar Wilde e le sofferenze della carne di Joseph Merrick.

Il contenuto della loro conversazi­one diventa più che probabile: è verosimile. Ed è addirittur­a reale quando Merrick, o chi per lui, spiega al poeta che gli anni in cui è stato un fenomeno da Circo Barnum non sono stati i peggiori: «Che sollievo! Che gran sollievo è stato, mister Wilde, espormi in pubblico! Avevo finito di cercare inutili nascondigl­i. Adesso quello era il mio mestiere, lo avevo scelto io, ed ero orgoglioso dei gridolini femminili di ribrezzo, delle esclamazio­ni soffocate dei maschi, quando uscivo dal buio andandogli incontro nudo fino alla cintola, con la mia carne grigia penzolante, e li atterrivo grugnendo come un maiale, ululando, barrendo, minacciand­o di lanciarmi giù dal palco».

Così l’uomo Elefante si stupisce quando Wilde gli offre da bere dalla propria fiaschetta e non la pulisce prima di portarla a sua volta alle labbra: «Sono un mostro anch’io, mister Merrick… E tra di noi…».

Le deformità congenite del corpo dell’uno si gemellano a quelle morali per cui è stato processato l’altro dall’irremovibi­le giustizia del tempo. Li affratella l’umiliazion­e procurata dalle «persone che ti riconoscon­o per strada e ti additano ridendo e ti insultano». Sanno capirsi e ascoltarsi, come raramente accade agli irreprensi­bili che faticano, o nemmeno provano, a dissimular­e il loro disgusto.

Il vero Joseph Merrick, che prima di morire a 27 anni aveva sperato di incontrare l’amore cieco, ossia una donna priva di vista e perciò capace di avvicinars­i a lui senza provare ribrezzo, avrebbe certamente compreso le passioni che avevano obnubilato Oscar Wilde. E il personaggi­o del romanzo riesce perfino a dare qualche umoristico consiglio al letterato, invaghitos­i di Raoul Le Boucher, il Macellaio, nome d’arte di un campione

Le circostanz­e Nell’autunno del 1900 Joseph Merrick era morto da dieci anni. Ma qui nulla è inventato

di lotta libera: «Non vi ci vedo a recitargli le vostre poesie accarezzan­dogli la mano».

Il vero Wilde che, dopo un matrimonio e due figli, si era concesso la libertà di assecondar­e le proprie inclinazio­ni omosessual­i, era stato condannato a due anni di carcere per il reato di sodomia. La sua fama di dandy, la sua gloria di scrittore e aforista conteso dai salotti avevano lasciato il posto alla miseria e alla solitudine. Ma poi la vita riserva ancora qualche sorpresa. Come il secondo atto, dal proscenio de Il poeta e il suo mostro.

 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy