Elephant man e mister Wilde Conversazioni (im)possibili
«C’è nessuno?», «C’è…nessuno?»: pare di sentire le assi del vecchio palcoscenico da baraccone scricchiolare sotto i piedi esitanti di Oscar Wilde, inzaccherato dalla pioggia e dal fango. Il poeta ha 46 anni, una fama prestigiosa distrutta dagli scandali, e ancora pochi giorni da vivere. Nella semioscurità di quel rifugio provvisorio dal maltempo autunnale, nella periferia parigina, scoprirà di non essere solo.
Rintanato nel buio c’è qualcuno che afferma di aver interpretato il ruolo principale della farsa più tragica di Wilde, Il ritratto di Dorian Gray. E faceva proprio la parte del ritratto, colui che invecchia e si deforma di pari passo con le malefatte del suo fatuo, immarcescibile modello. Fino a diventare una creatura orrenda. Senza trucco e senza inganno. Perché chi gli parla da quell’antro ammuffito si presenta come Joseph Merrick, l’uomo Elefante, celebre «mostro» inglese dell’epoca vittoriana. Magari non è vero. Ma, a quel punto, è tardi.
Da quel colpo di scena, a pagina 22, diventa difficile staccarsi, fino all’ultima delle 145 pagine totali, dal nuovo romanzo del commediografo triestino Furio Bordon, Il poeta e il suo mostro, edito da Sellerio. Il lettore diventa spettatore, prigioniero del teatro in disarmo e del dialogo fitto, a tratti complice e a tratti ruvido, tra lo scrittore di Dublino e l’inguardabile storpio di Leicester.
Non importa che quell’incontro fosse storicamente impossibile, perché l’uomo Elefante, la cui esistenza è stata narrata dal chirurgo Frederick Treves e, molto tempo dopo, dal drammaturgo Bernard Pomerance e dal regista David Lynch, era morto da oltre dieci anni nell’autunno del 1900, quando è ambientato il racconto di Bordon.
Non importa perché nulla di ciò che i due «quasi amici» si svelano reciprocamente è inventato. Fatti, nomi, circostanze. L’autore arriva al cuore delle rispettive traversie, i peccati della carne di Oscar Wilde e le sofferenze della carne di Joseph Merrick.
Il contenuto della loro conversazione diventa più che probabile: è verosimile. Ed è addirittura reale quando Merrick, o chi per lui, spiega al poeta che gli anni in cui è stato un fenomeno da Circo Barnum non sono stati i peggiori: «Che sollievo! Che gran sollievo è stato, mister Wilde, espormi in pubblico! Avevo finito di cercare inutili nascondigli. Adesso quello era il mio mestiere, lo avevo scelto io, ed ero orgoglioso dei gridolini femminili di ribrezzo, delle esclamazioni soffocate dei maschi, quando uscivo dal buio andandogli incontro nudo fino alla cintola, con la mia carne grigia penzolante, e li atterrivo grugnendo come un maiale, ululando, barrendo, minacciando di lanciarmi giù dal palco».
Così l’uomo Elefante si stupisce quando Wilde gli offre da bere dalla propria fiaschetta e non la pulisce prima di portarla a sua volta alle labbra: «Sono un mostro anch’io, mister Merrick… E tra di noi…».
Le deformità congenite del corpo dell’uno si gemellano a quelle morali per cui è stato processato l’altro dall’irremovibile giustizia del tempo. Li affratella l’umiliazione procurata dalle «persone che ti riconoscono per strada e ti additano ridendo e ti insultano». Sanno capirsi e ascoltarsi, come raramente accade agli irreprensibili che faticano, o nemmeno provano, a dissimulare il loro disgusto.
Il vero Joseph Merrick, che prima di morire a 27 anni aveva sperato di incontrare l’amore cieco, ossia una donna priva di vista e perciò capace di avvicinarsi a lui senza provare ribrezzo, avrebbe certamente compreso le passioni che avevano obnubilato Oscar Wilde. E il personaggio del romanzo riesce perfino a dare qualche umoristico consiglio al letterato, invaghitosi di Raoul Le Boucher, il Macellaio, nome d’arte di un campione
Le circostanze Nell’autunno del 1900 Joseph Merrick era morto da dieci anni. Ma qui nulla è inventato
di lotta libera: «Non vi ci vedo a recitargli le vostre poesie accarezzandogli la mano».
Il vero Wilde che, dopo un matrimonio e due figli, si era concesso la libertà di assecondare le proprie inclinazioni omosessuali, era stato condannato a due anni di carcere per il reato di sodomia. La sua fama di dandy, la sua gloria di scrittore e aforista conteso dai salotti avevano lasciato il posto alla miseria e alla solitudine. Ma poi la vita riserva ancora qualche sorpresa. Come il secondo atto, dal proscenio de Il poeta e il suo mostro.