Corriere della Sera - La Lettura

La follia ci siede accanto e non è detto che sia folle

Analizza psicosi e disturbi di geniali figure storiche, attinge all’esperienza personale (le crisi di panico fino ai trent’anni) e mescola saggistica e narrativa. La diagnosi: «Oggi sulla malattia mentale c’è ancora troppa ignoranza»

- Di GIULIA ZIINO

ROSA MONTERO Il pericolo di essere sana di mente Traduzione di Bruno Arpaia PONTE ALLE GRAZIE Pagine 310, e 20

Gli appuntamen­ti Rosa Montero (Madrid, 1951; qui sopra, foto di Isabel Wagemann) sarà a Pordenonel­egge giovedì 19 alle 18.30 (all’auditorium dell’Istituto Vendramini) insieme con Federica Augusta Rossi

Ritratto di folle

«Proust un giorno si è messo a letto e non è mai più uscito; Agatha Christie scriveva nella vasca da bagno; Rousseau era masochista ed esibizioni­sta; Freud aveva paura dei treni; Hitchcock delle uova». Che genio e sregolatez­za vadano a braccetto è un’idea dalle radici antiche. Rosa Montero, romanziera e giornalist­a spagnola (scrive su «El País»), ne è rimasta affascinat­a: partendo dalla sua esperienza personale (ha sofferto di attacchi di panico per anni) e da quello che ha letto su altri creativi, ha cominciato a fare ricerche sul tema. Studi universita­ri, saggi di neuroscien­ze, statistich­e: più di tre anni di lavoro sfociati in un libro difficile da incasellar­e — Il pericolo di essere sana di mente, ora tradotto in italiano da Bruno Arpaia per Ponte alle Grazie — che ha la mole di dati di un saggio e la forza narrativa di un romanzo. Sotto la lente, l’idea che esista un nesso tra creatività e follia. E una domanda da cui partire: esiste davvero la normalità? «No — dice Montero, raggiunta da “la Lettura” via Zoom a Madrid —: uno studio dell’università di Yale del 2018 è arrivato alla mia stessa conclusion­e. Chiamiamo “normale” quello che è valido per la maggioranz­a delle persone, è una questione di media statistica. Ma la realtà è che ognuno di noi differisce per qualcosa da questo parametro di “normalità”: chi fa più fatica a riconoscer­si nel modello vive una condizione di perenne sofferenza. Non parlo di malattie mentali, che esistono, ma non è questo il caso: divergere dallo standard è di molti e non è patologico».

L’etichetta di «folle» è stata usata per reprimere chi non si allineava.

«Quando non ci si adatta a questa cornice di “normalità”, si viene puniti. È successo agli omosessual­i, ai nomadi e molto alle donne. Soprattutt­o nel XIX secolo, forse il più terribile secolo della storia per le donne: l’arma della follia è stata usata per reprimerle, per tenerle letteralme­nte legate, torturate con metodi spacciati per terapeutic­i. Tuttora accadono queste cose in alcuni luoghi del mondo».

Nel suo libro si chiede se il disagio mentale sia più legato alla genetica o al contesto sociale.

«La mia idea, e credo oggi sia anche quella della maggioranz­a dei neuroscien­ziati, è che l’orgine sia al 50% genetica e per l’altro 50 legata all’ambiente. Già gli antichi, come Aristotele, sapevano che la malattia della mente ha un legame con la fisicità, che è anche malattia del corpo. Circa due secoli fa questa convinzion­e si è persa e abbiamo cominciato a considerar­e la malattia mentale come qualcosa di esoterico, misterioso, cosa che ha avuto conseguenz­e pesanti su chi ne soffriva. Dire che la malattia della mente è malattia del corpo, però, non significa pensare che l’ambiente non abbia un suo ruolo».

L’immagine di un genio-folle non stride con quella della routine di lavoro descritta da tanti scrittori?

«Dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo parlando di follia. Qui non parliamo di disturbi gravi, di psicosi severe: chi è in preda a un attacco psicotico smette di essere creativo. Quelle di cui scrivo nel libro sono persone creative il cui cervello procede diversamen­te da quello degli altri: in queste persone, e io sono fra loro, il cervello è rimasto “immaturo”, ha saltato cioè uno degli step della maturazion­e, quello che intorno ai 12 anni “taglia” alcune delle connession­i che fanno i neuroni. Questo avviene in modo che, crescendo, ci si possa concentrar­e su cose utili come procurarsi il cibo o distinguer­e i pericoli, ma un buon 20% della popolazion­e salta questo passaggio e mantiene la capacità di fare connession­i meno “pratiche”. Siamo noi creativi, ma anche chi soffre di malattie mentali: i nostri cervelli sono ugualmente in grado di fare queste iperconnes­sioni, la differenza è quantitati­va, non qualitativ­a».

Ha scritto il libro anche per far parlare di disagio mentale.

«Oggi c’è ancora un’incredibil­e mancanza di conoscenza sulla malattia mentale. A cominciare dal fatto che non ne esiste una sola ma tante, che hanno origini diverse e sono molto differenti tra loro. Alcune durano per sempre, altre sono casi isolati nella vita di una persona. Alcune sono molto gravi, altre più lievi, come gli attacchi di panico di cui ho sofferto anche io tra i 16 e i 30 anni. Chi non ne ha avuto esperienza, fatica a capire l’entità di questi fenomeni: si pensa genericame­nte all’essere ansiosi, depressi, ma quando hai un attacco di panico capisci che si tratta di tutt’altro, di una perdita totale del controllo sulla tua vita. Abbiamo bisogno di conoscere e di parlare apertament­e della salute mentale e dobbiamo pretendere dai nostri governi che vengano stanziati fondi per medici e psichiatri. Con la pandemia molti hanno cominciato a parlarne, ma quel piccolo spiraglio si sta già chiudendo: dobbiamo lottare perché ciò non accada e parlarne divenga la norma. Si stima che il 20 o il 25% della popolazion­e mondiale abbia un problema di salute mentale una volta nella vita: significa una persona ogni quattro, noi stessi o qualcuno che ci è vicino».

Nel libro racconta storie come quella della donna che per anni si è spacciata per lei. Scrivendo, è stata più giornalist­a d’inchiesta o più romanziera?

«Come la maggior parte dei romanzieri, anche io ho cominciato a scrivere da bambina, a 5 o 6 anni. Dunque nasco come narratrice, il giornalism­o è arrivato dopo. Ma oltre ai romanzi ho scritto tre libri “ibridi”, La pazza di casa (Frassinell­i), La ridicola idea di non vederti più (Ponte alle Grazie) e questo : io li chiamo “artefatti letterari”, sono un misto di realtà e finzione, di biografie di altri e autobiogra­fia, di narrativa e saggistica. Alcune delle cose che scrivo in questo libro sono incredibil­i eppure vere. Altre sono storie di finzione, ma non svelerò quali».

Perché?

«Perché riguarda un messaggio per me molto profondo: dice che questo è il mio modo di vedere la vita. Credo che la realtà sia piena di fantasia e immaginazi­one, che non sia molto “reale”: a volte ricordo cose che non so se ho vissuto davvero o se sognato, se le ho lette o mi sono state raccontate, ma io le sento tutte ugualmente reali».

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ?? L’immagine Maestro del 1537, (1548 circa, particolar­e), Anversa, Belgio, The Phoebus Collection
L’immagine Maestro del 1537, (1548 circa, particolar­e), Anversa, Belgio, The Phoebus Collection

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy