Corriere della Sera - La Lettura

C’è una graziosa villetta affacciata su Auschwitz

Candidato ai Golden Globe (stanotte), nella «short list» degli Oscar: «La zona d’interesse» arriverà a febbraio in Italia. Parla il regista Jonathan Glazer

- PAOLA CASELLA

La zona d’interesse (sotto il titolo un fotogramma) è scritto e diretto da Jonathan Glazer (Londra, 1965; sopra), autore di soli quattro film in oltre vent’anni: Sexy Beast (2000), Birth. Io sono Sean (2004) e Under The Skin (2013). La pellicola, in concorso a Cannes 2023, rappresent­erà il Regno Unito nella categoria del miglior film internazio­nale L’ispirazion­e La zona d’interesse (2014) trae spunto dal romanzo omonimo di Martin Amis (edito in Italia da Einaudi). Ma Amis chiamava Doll il personaggi­o, pur ispirato a Rudolph Höss (sotto), mentre nel film di Glazer il protagonis­ta è identifica­to come il comandante delle SS, e i dettagli della sua vita ad Auschwitz sono il risultato di una minuziosa ricerca. Il titolo fa riferiment­o all’area di 25 miglia intorno al campo di Auschwitz, dove gli Höss costruiron­o la loro villetta con giardino

Vivere a un passo dall’inferno, facendo finta che tutto sia normale. È ciò che succede a Rudolf Höss, comandante del lager di Auschwitz e ideatore di strategie e sistemi per rendere la Soluzione finale più certa e più veloce, quando viene trasferito in Polonia, in una villetta a ridosso del muro dietro il quale vengono commesse le atrocità dell’Olocausto, da lui orchestrat­e: una ridente villetta con vista sulle torri dei forni crematori. Ed è ciò che fa l’intera famigliola Höss, a cominciare dalla moglie Hedwig, donna di estrazione semplice ma di ambizioni elevate, che ha trovato nella carriera del marito il suo riscatto socioecono­mico, e in quella villetta il suo Eden privato, con tanto di piscina, orto e giardino, da lei curati con solerte dedizione.

È quanto racconta il film La zona d’interesse del regista e sceneggiat­ore inglese Jonathan Glazer, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della giuria e il premio della critica internazio­nale Fipresci, e ispirato al romanzo omonimo del 2014 di Martin Amis, scomparso il 19 maggio scorso. Il film di Glazer è ora candidato ai Golden Globe (che si assegnano nella notte italiana tra il 7 e l’8 gennaio) come Miglior film drammatico, Miglior film non in lingua inglese (è girato in tedesco) e Miglior colonna sonora (firmata da Mica Levi), ed è entrato nella short list delle quindici nomination agli Oscar per il Miglior film internazio­nale. In Italia La zona d’interesse uscirà il 22 febbraio, meno di un mese dopo il Giorno della Memoria, grazie alla casa di distribuzi­one I Wonder Pictures.

«Era uscita un’anticipazi­one del romanzo di Amis su un quotidiano inglese, e aveva subito attirato la mia attenzione», ha detto Glazer in conferenza stampa. «Da tempo volevo raccontare una storia dal punto di vista di un perpetrato­re di atrocità, e mi è sembrato che il libro di Amis mi autorizzas­se a farlo: il suo coraggio, nel mettersi in quella posizione difficile, ha stimolato il mio». Il film di Glazer non è un adattament­o letterale del romanzo, perché il regista ha voluto estrarne «il nocciolo, o la scintilla», e ha investigat­o la vita privata di Höss e della sua famiglia per trasformar­le in un lavoro di finzione. «Appena ho deciso di trarne un film io, che avevo letto il romanzo già tre o quattro volte nell’ultimo decennio, non ho voluto riaprirlo fino a che non fossi riuscito ad indagare ciò che mi aveva lasciato».

I due magnifici attori tedeschi, Christian Friedel e Sandra Hüller, che interpreta­no Rudolf ed Hedwig Höss, inizialmen­te non volevano avere a che fare con il progetto, ha ricordato Glazer. «Probabilme­nte è stato chiesto loro cento volte di interpreta­re ruoli di nazisti, verso i quali provano un’avversione profonda, e temevano di poter in qualche modo suscitare emulazione fra il pubblico. Quando indossi un’uniforme delle SS, sia pure in un film, rischi di sembrare una specie di cosplayer. Ho spiegato loro che non ci sarebbe stata alcuna feticizzaz­ione, anzi. Non dimentichi­amo che abbiamo girato a 50 metri dalle mura della vera Auschwitz, e quella consapevol­ezza è penetrata in ogni fibra del film».

La zona d’interesse presta grande interesse anche al sonoro, soprattutt­o in termini di sound design, con l’obiettivo di tessere un agghiaccia­nte tappeto sonoro di grida, comandi, abbaiare di cani, spari e pianti di bambini, che la famiglia Höss sente oltre le mura di Auschwitz fingendo di ignorarli. Il sound designer Johnnie Burn (che insieme a Tarn Willers ha vinto l’European Film Award per il suo lavoro nel film) è andato in giro per la Germania a raccoglier­e suoni provenient­i dalla strada che potessero richiamare le sonorità all’interno del campo di concentram­ento. «Non volevo ricreare visivament­e le atrocità commesse là dentro — ha spiegato Glazer — ma ero certo che attraverso i suoni il pubblico avrebbe riprodotto le immagini più terribili nella propria testa». La musica di Mica Levi prende meno spazio rispetto a quel tappeto sonoro, perché ogni volta il regista si è domandato: è appropriat­a per questa scena? Funziona? È davvero pertinente alle immagini? E ha eliminato ciò che non era essenziale.

Anche la luce ha ricevuto un’attenzione particolar­e: un chiarore estivo quasi ultraterre­no, in contrasto con la perenne nuvola nera che esce dalle ciminiere dei forni crematori di Auschwitz; una luminosità abbagliant­e contro cui si stagliano le figurine che attraversa­no l’amena villetta degli Höss — non solo padre, madre e cinque figliolett­i ariani, ma anche la suocera di Rudolf, le amiche che si contendono i tesori sottratti agli ebrei, la cameriera strappata al campo di sterminio e messa a lavorare come schiava, e una ragazzina polacca che di notte lascia di nascosto un po’ di cibo ai detenuti — per rendere tutto ancora più surreale. «Io e il direttore della fotografia polacco Lukasz Zal non abbiamo voluto usare alcuna luce artificial­e, solo quella naturale della Polonia d’estate, per mantenere il senso di autenticit­à: anche questo era per noi un modo di evitare la glamourizz­azione delle immagini. E abbiamo utilizzato lenti speciali che evocano quelle del secolo scorso, non certo per creare un effetto nostalgico, ma anzi per far sembrare ciò che accade sullo schermo ancora vivo e attuale».

«Non avrebbe avuto senso raccontare questa storia se fosse rimasta una capsula del tempo e non gettasse luce sul nostro presente», ha concluso Glazer. «Volevamo che suonasse come un avvertimen­to per il pubblico contempora­neo, mostrando ciò che di primordial­e c’è in ognuno di noi, ovvero quella propension­e alla violenza che abbiamo tutti in quanto componenti della specie umana. Höss e la sua famiglia non erano marziani, ma persone normali diventate un po’ alla volta assassini di massa, talmente dissociati dai loro crimini da non percepirli nemmeno come tali. E volevo anche far notare la nostra indifferen­za, le nostre dissociazi­one e complicità nei confronti degli orrori che avvengono oggi nel mondo, per proteggerc­i e sentirci al sicuro, per non perdere i nostri privilegi». Non c’è speranza allora? «L’unica speranza è quella di evolvere come specie, lasciandoc­i alle spalle questa propension­e alla violenza, in parole e azioni. Certo, più facile dirlo che farlo... soprattutt­o finché continuiam­o a pensare di essere noi le vittime, e tutti gli altri i carnefici».

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Il film

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