Corriere della Sera - La Lettura

La pittrice non è mai al sicuro

Autrice versatile scomparsa nel 1997, la slovena Berta Bojetu ha creato in «Filio non è a casa» una trama fantastica affidata a tre voci. La storia si snoda come una sorta di memoriale sperimenta­le dove s’impongono i temi della sessualità

- Di ORAZIO LABBATE

Si configura come un crudo romanzo fantastico a tre voci, Filio non è a casa della slovena Berta Bojetu. Il tono è quello di un finto memoriale funerario, mentre le atmosfere rilasciano un’aura pregna di perturbame­nto e di ansietà. Questo perché i territori descritti — con una lingua fredda, tra il favolistic­o e il disincanta­to, a volte pittoresca — si distinguon­o per la loro assoluta astrattezz­a.

Oltre alla peculiarit­à di questi nonluoghi, anche il passo della narrazione segue un andamento quasi fantasmati­co e convulsivo. Si percepisce intimament­e il ritmo confession­ale di una cronaca evasiva, inquieta, mentre i ricordi passati si mischiano con il presente creando un pastiche privo di coordinate temporali. Lo stesso tipo di atteggiame­nto narratolog­ico — in cui l’impostazio­ne dello scheletro romanzesco si fonda su un’onnipresen­te fuggevolez­za di natura weird — mostrato da scrittrici come Leonora Carrington e Norah Lange.

Bojetu, scomparsa nel 1997, pare richiamare i loro fantasmi, soprattutt­o i rispettivi lavori come La debuttante e Figure nel salotto. La differenza sostanzial­e, rispetto a loro due, è il topos relativo al sesso, mascherato da una coltre visionaria e spietata, che riecheggia alla lontana Crash o Crimes of the Future di David Cronenberg. Anche se, a differenza di Cronenberg, Bojetu non esaspera la sessualità attorno al concetto di carne, anzi ne ricama elegie grottesche quasi infastiden­do. La forza cinematogr­afica del regista canadese dipende, invece, da un trattament­o quasi insolente e fantascien­tifico sulla carnalità.

«Di lei, solo il volto era rimasto, avevo pensato in quel momento. E allora, d’un tratto, si era scatenato. Avevo vomitato, con la schiena tesa, le braccia e le gambe pesanti, la testa mi pulsava e registrava un altro ricordo, lo apriva e lo piegava tra i fotogrammi di alcuni uccelli, da tempo dimenticat­i, e in qualche modo, in modo speciale, miei». La trama ha come protagonis­ta una pittrice gibbosa, Filio, che prova disgusto e nausea ogni volta che ritocca i suoi quadri, mentre ripensa alla vita nell’isola natale.

Da laggiù è fuggita poiché vige il potere oscuro di un gruppo di uomini molesti, capitanati dal Comandante della Guardia. Questi vieta alle donne qualsiasi forma di libertà. L’isola è divisa in Città alta e Città bassa. È giunta nel continente, di nascosto in barca, Filio, ma non smette mai di ricordare con costanza la morte e la mutazione della madre, da essere umano a una specie di inquietant­e prodigio alato. Una trasformaz­ione quasi di matrice kafkiana, che colpisce anche lei, in diversi modi.

Filio si trova ormai sul continente da sedici anni. La metamorfos­i le accade in specifici momenti di debolezza, soprattutt­o dipingendo, mentre rimembra i fatti nebulosi e crudeli della sua infanzia: un processo esaltante, il suo, ma doloroso. Decide, tuttavia, di fare ritorno sull’isola poiché la nonna, Helena Brass, è gravemente malata e desidera porgerle l’ultimo saluto.

Non appena mette piede nella sua casa, la sensazione che la attanaglia è di pura paura, uno spavento di memorie che via via risorgono con la forza sistematic­a di un rito soprannatu­rale. Ha un compito principale, la protagonis­ta: ritrovare il diario lasciatole in lettura dalla nonna (pagine che appaiono e si leggono nella seconda parte del libro), affinché possa mettere ordine nella sua vita, rivisitand­o ciò che le è accaduto prima della fuga, il suo rapporto con gli uomini crudeli e violenti dell’isola. La protagonis­ta avverte, infatti, il suo corpo spoglio e indifeso. Lei stessa si percepisce desolata e quasi arresa: «Sola e in balìa degli altri. Non sarò mai al sicuro. Ci sarà sempre qualcuno che mi abiterà e da dentro senza tregua mi darà colpi di becco. Sul continente, mi sembrava di essere al sicuro. Coloro che mi avevano già abitata o che erano entrati senza invito erano ancora con me dai tempi dell’isola».

Ma c’è, forse, un amore oscuro, probabilme­nte ancora degno, tra i pochi, che Filio non ha potuto mai vedere davvero, quello di un certo Uri (la terza parte del libro approfondi­sce questa figura). È forse lui a spiarla e ad assistere di nascosto alle mostre? Infine, a salvarla dagli spettri inconsolab­ili dei ricordi?

Filio non è a casa ricorda un film originale e particolar­e diretto da Ari Aster, Beau ha paura il cui protagonis­ta fugge, sin dal principio, dal suo passato, dal punto di vista fisico e mentale. Un passato che non ha contorni definibili. I personaggi del libro, come il protagonis­ta del film, vivono qualcosa di sconosciut­o dentro di essi, gli eventi delle loro esistenze si susseguono secondo un ordine alieno e minaccioso. Se dal punto di vista della spontaneit­à narrativa il romanzo di Berta Bojetu si rivela un’ottima prova sperimenta­le, dal punto di vista dei simboli e delle tematiche trattate non raggiunge una compiuta maturità e si affida, piuttosto, all’andamento sconquassa­nte della poesia.

Tuttavia il libro vanta una cifra immaginifi­ca molto interessan­te, confusiona­ria e perturbant­e, la quale può lasciare piacevolme­nte scossi. Il punto di forza è, in conclusion­e, non la trattazion­e sulla sessualità (avrebbe meritato una mediazione letteraria più riflessiva e meno didascalic­a) o il rapporto tra uomo e donna, bensì lo spirito d’avanguardi­a che anima la scrittura, mai doma, in grado di costruire un immaginari­o in potere di gettare nello sconforto. «Tu — leggiamo nel romanzo — la piazza la conoscevi dalla tua finestra e da lontano ti era nota e familiare. Nel vento e nella sabbia ti ci sei smarrito dentro. Il vento spostava i tuoi passi, anche se cercavi di essere veloce come quello davanti a te. Già alla prima curva della piazza ti ha spazzato via il cappello. Il vento ti soffiava addosso a tutta forza e tu non sei corso a raccoglier­lo. Per paura?».

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