Corriere della Sera - La Lettura
Il populismo non sopporta le sconfitte
Leader carismatici che non eliminano le libere elezioni ma cercano di invalidarle quando perdono. L’analisi critica di Arato e Cohen
Sul populismo è stato scritto molto e si è dibattuto ancor di più, pur senza giungere a conclusioni esaustive. Andrew Arato e Jean Louise Cohen ce ne offrono un’analisi più approfondita in Populismo e società civile. La sfida alla democrazia costituzionale (Meltemi). Non una storia dei movimenti populisti, ma una sistemazione teorica organica che coglie il punto di vista del diritto costituzionale, assieme a quello politico e sociologico, di un fenomeno così sfuggente. Sfuggente poiché privo di un fondamento ideologico, in quanto si limita a mutuare di volta in volta frammenti da altre ideologie politiche (si parla infatti di host ideology) e di farli propri quando sono utili al proprio tornaconto.
È curioso come nessun aderente al movimento si definisca populista e come non esista alcuna summa teorica di riferimento: le uniche trattazioni, come questa, sono prodotte da altri, in chiave più o meno critica; mai dagli stessi populisti. Che non siano in grado di formulare un valido supporto ideologico alla loro azione politica? Secondo Arato e Cohen il motivo sta nella vocazione pragmatica del populismo e nel rifiuto di chiudersi in una logica predefinita. Preferisce cogliere l’opportunità del momento e decidere sulla base degli umori popolari. Perché l’importante è seguire la volontà dei cittadini, benché volubile. Per questo tutti i populismi richiedono continuamente la consultazione elettorale, unitamente al parere degli adepti anche attraverso i social e altri strumenti di rilevazione del consenso.
C’è una proporzionalità diretta tra la crescita del populismo e la diffusione delle comunicazioni in Rete. L’intermediazione non è più necessaria: un aspetto su cui vale la pena di riflettere, poiché non riguarda solo la politica. Ma in politica ha causato la scomparsa dell’intellettuale organico, la figura di mediazione che indicava la strada da seguire. Preferire la democrazia diretta, non rappresentativa, esprime la convinzione che le masse popolari non abbiano bisogno di tutori né di interpreti, confermando la fiducia assoluta nella maturità dei singoli individui e l’ostilità verso l’élite.
Se il populismo è sinonimo di democrazia diretta, ha però bisogno di un leader. Ci vuole sempre un trascinatore, un capitano del popolo che tenga insieme la diversità delle opinioni. Questo compito è svolto da una figura carismatica, cioè da una tipologia di potere che — secondo la definizione di Max Weber — non è propriamente democratica. La storia ci ha insegnato a diffidare dei capi carismatici, capaci di muovere le folle facendo leva sulle emozioni e sulla propaganda.
Lo stesso leader ha da essere uomo del popolo e venire dal popolo. Per essere riconosciuto nel suo carisma, deve mostrarsi nella sua mediocrità, simile agli altri nel comportamento come nel linguaggio, avere dei difetti, in modo da rendersi omologo alla sua gente. Con una buona dose di emotività e di disprezzo per l’altro, soprattutto per il nemico del popolo, identificato ad arte, su cui convogliare il pubblico ludibrio.
Il ricorso al potere carismatico è proprio uno di quei casi di host ideology ,di prestito da altri sistemi politici: in tal caso dal potere autoritario, nell’impossibilità di possedere una propria formula.
Non si può dire che il saggio di Arato e Cohen proponga una lettura oggettiva del populismo, al di sopra delle parti. Anzi, gli autori dichiarano esplicitamente la propria posizione negativa, trattandosi di un lavoro a tesi che persegue un obiettivo critico (sulla linea di Jürgen Habermas), al fine di prospettarne il superamento. Perché il populismo, malgrado le accuse di cui è oggetto (salvo rari casi, non gode di buona letteratura), è diffuso in gran parte del mondo. Assume forme diverse, di destra e di sinistra, spesso coniugando entrambe le posizioni con equilibrismi insostenibili; garantendo una democrazia formale o persino tentando il colpo di Stato quando teme di perdere il potere. Ma sempre facendo leva sul consenso, la difesa degli interessi del popolo, la demagogia e la mozione degli affetti.
Malgrado tutto, il populismo si muove tra un numero ristretto di opzioni, non necessariamente sequenziali, come nel gioco dei quattro cantoni: mobilitazione, partito, governo, regime. Esistono attualmente, in luoghi diversi, esempi significativi di ognuno di esse e non si potrà negare che non trapeli, qua e là, una certa tentazione autoritaria. È vero — riconoscono Arato e Cohen — che regimi totalitari come fascismo e comunismo, una volta al potere, impediscono il ricorso alle libere elezioni, mentre il populismo le mantiene, confidando nella forza conferitagli dal consenso popolare. Ma è anche vero che quando perde le elezioni è tentato di invalidarne il risultato. È accaduto nel 2020 negli Stati Uniti, Paese di indubbia tradizione democratica. Perché non potrebbe accadere altrove?
Il guaio è che il populismo, malgrado il bagaglio retorico che sciorina, la democrazia diretta, l’uno vale uno e la pretesa di difendere gli interessi popolari, è puramente un movimento di opposizione, decostruttivo del sistema democratico esistente, non ne sa opporre uno alternativo.
Nell’ultima parte del loro saggio, Arato e Cohen affrontano il difficile compito di come superare il populismo, non cercando di restaurare le condizioni precedenti, ma attuando una forma di democrazia pluralista, in cui far convergere più posizioni anche distanti fra loro. Resta comunque irrisolta una questione di fondo: quali sono state le ragioni dell’affermazione di questo fenomeno politico e del suo rapido diffondersi? C’è da chiedersi seriamente se davvero qualcosa non va nella democrazia rappresentativa.