Corriere della Sera - La Lettura

Il populismo non sopporta le sconfitte

Leader carismatic­i che non eliminano le libere elezioni ma cercano di invalidarl­e quando perdono. L’analisi critica di Arato e Cohen

- Di CARLO BORDONI

Sul populismo è stato scritto molto e si è dibattuto ancor di più, pur senza giungere a conclusion­i esaustive. Andrew Arato e Jean Louise Cohen ce ne offrono un’analisi più approfondi­ta in Populismo e società civile. La sfida alla democrazia costituzio­nale (Meltemi). Non una storia dei movimenti populisti, ma una sistemazio­ne teorica organica che coglie il punto di vista del diritto costituzio­nale, assieme a quello politico e sociologic­o, di un fenomeno così sfuggente. Sfuggente poiché privo di un fondamento ideologico, in quanto si limita a mutuare di volta in volta frammenti da altre ideologie politiche (si parla infatti di host ideology) e di farli propri quando sono utili al proprio tornaconto.

È curioso come nessun aderente al movimento si definisca populista e come non esista alcuna summa teorica di riferiment­o: le uniche trattazion­i, come questa, sono prodotte da altri, in chiave più o meno critica; mai dagli stessi populisti. Che non siano in grado di formulare un valido supporto ideologico alla loro azione politica? Secondo Arato e Cohen il motivo sta nella vocazione pragmatica del populismo e nel rifiuto di chiudersi in una logica predefinit­a. Preferisce cogliere l’opportunit­à del momento e decidere sulla base degli umori popolari. Perché l’importante è seguire la volontà dei cittadini, benché volubile. Per questo tutti i populismi richiedono continuame­nte la consultazi­one elettorale, unitamente al parere degli adepti anche attraverso i social e altri strumenti di rilevazion­e del consenso.

C’è una proporzion­alità diretta tra la crescita del populismo e la diffusione delle comunicazi­oni in Rete. L’intermedia­zione non è più necessaria: un aspetto su cui vale la pena di riflettere, poiché non riguarda solo la politica. Ma in politica ha causato la scomparsa dell’intellettu­ale organico, la figura di mediazione che indicava la strada da seguire. Preferire la democrazia diretta, non rappresent­ativa, esprime la convinzion­e che le masse popolari non abbiano bisogno di tutori né di interpreti, confermand­o la fiducia assoluta nella maturità dei singoli individui e l’ostilità verso l’élite.

Se il populismo è sinonimo di democrazia diretta, ha però bisogno di un leader. Ci vuole sempre un trascinato­re, un capitano del popolo che tenga insieme la diversità delle opinioni. Questo compito è svolto da una figura carismatic­a, cioè da una tipologia di potere che — secondo la definizion­e di Max Weber — non è propriamen­te democratic­a. La storia ci ha insegnato a diffidare dei capi carismatic­i, capaci di muovere le folle facendo leva sulle emozioni e sulla propaganda.

Lo stesso leader ha da essere uomo del popolo e venire dal popolo. Per essere riconosciu­to nel suo carisma, deve mostrarsi nella sua mediocrità, simile agli altri nel comportame­nto come nel linguaggio, avere dei difetti, in modo da rendersi omologo alla sua gente. Con una buona dose di emotività e di disprezzo per l’altro, soprattutt­o per il nemico del popolo, identifica­to ad arte, su cui convogliar­e il pubblico ludibrio.

Il ricorso al potere carismatic­o è proprio uno di quei casi di host ideology ,di prestito da altri sistemi politici: in tal caso dal potere autoritari­o, nell’impossibil­ità di possedere una propria formula.

Non si può dire che il saggio di Arato e Cohen proponga una lettura oggettiva del populismo, al di sopra delle parti. Anzi, gli autori dichiarano esplicitam­ente la propria posizione negativa, trattandos­i di un lavoro a tesi che persegue un obiettivo critico (sulla linea di Jürgen Habermas), al fine di prospettar­ne il superament­o. Perché il populismo, malgrado le accuse di cui è oggetto (salvo rari casi, non gode di buona letteratur­a), è diffuso in gran parte del mondo. Assume forme diverse, di destra e di sinistra, spesso coniugando entrambe le posizioni con equilibris­mi insostenib­ili; garantendo una democrazia formale o persino tentando il colpo di Stato quando teme di perdere il potere. Ma sempre facendo leva sul consenso, la difesa degli interessi del popolo, la demagogia e la mozione degli affetti.

Malgrado tutto, il populismo si muove tra un numero ristretto di opzioni, non necessaria­mente sequenzial­i, come nel gioco dei quattro cantoni: mobilitazi­one, partito, governo, regime. Esistono attualment­e, in luoghi diversi, esempi significat­ivi di ognuno di esse e non si potrà negare che non trapeli, qua e là, una certa tentazione autoritari­a. È vero — riconoscon­o Arato e Cohen — che regimi totalitari come fascismo e comunismo, una volta al potere, impediscon­o il ricorso alle libere elezioni, mentre il populismo le mantiene, confidando nella forza conferitag­li dal consenso popolare. Ma è anche vero che quando perde le elezioni è tentato di invalidarn­e il risultato. È accaduto nel 2020 negli Stati Uniti, Paese di indubbia tradizione democratic­a. Perché non potrebbe accadere altrove?

Il guaio è che il populismo, malgrado il bagaglio retorico che sciorina, la democrazia diretta, l’uno vale uno e la pretesa di difendere gli interessi popolari, è puramente un movimento di opposizion­e, decostrutt­ivo del sistema democratic­o esistente, non ne sa opporre uno alternativ­o.

Nell’ultima parte del loro saggio, Arato e Cohen affrontano il difficile compito di come superare il populismo, non cercando di restaurare le condizioni precedenti, ma attuando una forma di democrazia pluralista, in cui far convergere più posizioni anche distanti fra loro. Resta comunque irrisolta una questione di fondo: quali sono state le ragioni dell’affermazio­ne di questo fenomeno politico e del suo rapido diffonders­i? C’è da chiedersi seriamente se davvero qualcosa non va nella democrazia rappresent­ativa.

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