Corriere della Sera - La Lettura
Fuori dalla storia, nel pieno della vita
Un volume antologico propone sessant’anni di lavori di Giorgio Vigolo, forse meno noto per i suoi versi che per gli studi su Belli e Hölderlin, ma stimato da Contini e Debenedetti; da Caproni, Luzi e Raboni. «Fedele ai romantici e a Leopardi»
Ci sono poeti che conducono la loro esistenza come se vivessero al di fuori della storia. Questo non significa affatto che si sottraggano alla responsabilità richiesta a ogni essere umano verso il presente con le sue tante chiamate: partecipazione, scelte, pronunciamenti, decisioni, azioni. Nei loro versi, però, ed è questo il punto discriminante, non sembra contemplata nessuna possibilità di mutamento o, tanto più, di perfezionamento. Per questo è come se la storia non ci sia o incida. C’è invece la vita, c’è il sentimento del tempo, e soprattutto il senso di un destino scritto una volta per sempre, fin dalla nascita. Da questo punto di vista, alla poesia spetta anzitutto il compito di mettere a fuoco una condizione che ogni volta si ripresenta tale e quale attraverso il corso, non importa quanto lungo o accidentato, degli anni.
Giorgio Vigolo è uno di questi poeti. Nato nel 1894 a Roma, dove è mancato nel 1983, è un nome abbastanza noto ai conoscitori di poesia, ma probabilmente più in qualità di studioso e curatore dell’opera di Belli, di cui nel 1952 ha allestito la prima edizione critica, o come traduttore storico della poesia di Hölderlin («insigne», così Andrea Zanzotto ha definito la sua traduzione), che come poeta in proprio. Non senza motivo, del resto. Vigolo ha patito la concorrenza di poeti ben maggiori di lui, infatti; e per quanto il borsino dei valori poetici, com’è noto, sia soggetto a fluttuazioni ricorrenti, sarà comunque difficile indicarlo adesso come una delle prime scelte della nostra poesia del secolo passato. Piuttosto, trattandosi di un poeta e di un letterato comunque meritevole, può essere interessante ricordarlo per verificare i punti di forza e insieme i limiti della sua poesia.
L’occasione è offerta dall’uscita di un volume antologico che ripropone una testimonianza cospicua della sua opera poetica, dagli esordi dei primi anni Venti ai componimenti più tardi dei primi anni Ottanta: Poesie 1923-1982, ben curato da Andrea Gialloreto per Le Lettere (sessant’anni di poesia, dunque; va aggiunto che tutte le liriche sono singolarmente commentate in calce al volume). Ma sentiamo subito il curatore, che nel suo scritto introduttivo delinea con precisione la fisionomia del poeta: «Idealismo e fantasmagoria, propensione all’onirico e all’orfi
smo, fedeltà agli stilemi dei romantici tedeschi e di Leopardi (anche a livello delle scelte metriche e lessicali), dispiego di armonici e concentrazione gnomica ed epigrammatica, culto del mito classico e fascinazione per i rituali di un cattolicesimo barocco e controriformista». Davvero sembrerebbe essercene abbastanza per comprendere la crescente «inattualità» di un poeta che per altro ha avuto tra i suoi estimatori critici come Gianfranco
Contini e Giacomo Debenedetti, o poeti come Giorgio Caproni, Mario Luzi e Giovanni Raboni (la sua bibliografia critica, in effetti, annovera alcuni nomi di assoluto rilievo).
Del resto è proprio così. Il punto di partenza di Vigolo sta nel riconoscimento e nell’assunzione su di sé di quella rottura tra l’uomo e la natura, tra l’individuo e la propria vita, che è il portato probabilmente più importante della cultura romantica europea e in particolare tedesca (ma anche, pur se in modo tutto suo, del nostro Leopardi), e che sarebbe stato poi definito come disincantamento. «Non tarda a rivelarmisi la nera/ vena d’un fato avverso che, per quanto/ l’onice io tagli, riaffiora sempre», scrive ad esempio; o ancora: «Il no con cui la vita ti risponde,/ il no con cui la vita ti percuote/ è l’orologio tragico del nulla/ che ti consuma dentro le sue ruote». Tenendo conto che si tratta di versi di una raccolta del 1977, due evidenze non possono non saltare agli occhi: da un lato la fedeltà di questo poeta ai modi espressivi messi a punto nei suoi primi libri, tra anni Venti e Trenta; dall’altro la totale estraneità ai registri discorsivi e in senso lato prosastici pressoché unanimemente condivisi nel secondo Novecento italiano inoltrato. Il tono è alto, molto alto, il linguaggio poetico sempre un poco ricercato se non aulico, e tutt’altro che immediata o confidente appare l’articolazione del discorso. Tanto più in quegli anni non poteva non risultare una poesia oltremodo eloquente, insomma, in cui il rischio della retorica è sempre lì lì per tramutarsi in un dato di fatto.
Eppure, come in un gioco delle parti è proprio questa impermeabilità al presente che costituisce il suo punto debole a salvare, se così si può dire, la poesia di Vigolo, «questo sublime Anacronismo», com’ebbe a dire giusto Caproni, «piantato nel cuore d’Italia». E questo tutto sommato è vero sempre, dunque anche per il ventennio anteguerra. Non è un caso che Vigolo avesse preso posizione piuttosto duramente nei confronti dell’ermetismo, vale a dire dell’orientamento poetico di gran lunga dominante negli anni Trenta e oltre. Da ogni punto vista le sue radici affondavano molto più addietro, infatti; nella poesia romantica, come detto, ma poi, più indietro ancora, in una concezione della poesia così integralmente sacrale da essere praticabile, nella modernità, solo per via di un eroico volontarismo. Si direbbe destinata necessariamente a perdere una poesia di questa natura. Forse è per questo che è necessario averla comunque presente.