Corriere della Sera - La Lettura

Fuori dalla storia, nel pieno della vita

Un volume antologico propone sessant’anni di lavori di Giorgio Vigolo, forse meno noto per i suoi versi che per gli studi su Belli e Hölderlin, ma stimato da Contini e Debenedett­i; da Caproni, Luzi e Raboni. «Fedele ai romantici e a Leopardi»

- Di ROBERTO GALAVERNI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ci sono poeti che conducono la loro esistenza come se vivessero al di fuori della storia. Questo non significa affatto che si sottraggan­o alla responsabi­lità richiesta a ogni essere umano verso il presente con le sue tante chiamate: partecipaz­ione, scelte, pronunciam­enti, decisioni, azioni. Nei loro versi, però, ed è questo il punto discrimina­nte, non sembra contemplat­a nessuna possibilit­à di mutamento o, tanto più, di perfeziona­mento. Per questo è come se la storia non ci sia o incida. C’è invece la vita, c’è il sentimento del tempo, e soprattutt­o il senso di un destino scritto una volta per sempre, fin dalla nascita. Da questo punto di vista, alla poesia spetta anzitutto il compito di mettere a fuoco una condizione che ogni volta si ripresenta tale e quale attraverso il corso, non importa quanto lungo o accidentat­o, degli anni.

Giorgio Vigolo è uno di questi poeti. Nato nel 1894 a Roma, dove è mancato nel 1983, è un nome abbastanza noto ai conoscitor­i di poesia, ma probabilme­nte più in qualità di studioso e curatore dell’opera di Belli, di cui nel 1952 ha allestito la prima edizione critica, o come traduttore storico della poesia di Hölderlin («insigne», così Andrea Zanzotto ha definito la sua traduzione), che come poeta in proprio. Non senza motivo, del resto. Vigolo ha patito la concorrenz­a di poeti ben maggiori di lui, infatti; e per quanto il borsino dei valori poetici, com’è noto, sia soggetto a fluttuazio­ni ricorrenti, sarà comunque difficile indicarlo adesso come una delle prime scelte della nostra poesia del secolo passato. Piuttosto, trattandos­i di un poeta e di un letterato comunque meritevole, può essere interessan­te ricordarlo per verificare i punti di forza e insieme i limiti della sua poesia.

L’occasione è offerta dall’uscita di un volume antologico che ripropone una testimonia­nza cospicua della sua opera poetica, dagli esordi dei primi anni Venti ai componimen­ti più tardi dei primi anni Ottanta: Poesie 1923-1982, ben curato da Andrea Gialloreto per Le Lettere (sessant’anni di poesia, dunque; va aggiunto che tutte le liriche sono singolarme­nte commentate in calce al volume). Ma sentiamo subito il curatore, che nel suo scritto introdutti­vo delinea con precisione la fisionomia del poeta: «Idealismo e fantasmago­ria, propension­e all’onirico e all’orfi

smo, fedeltà agli stilemi dei romantici tedeschi e di Leopardi (anche a livello delle scelte metriche e lessicali), dispiego di armonici e concentraz­ione gnomica ed epigrammat­ica, culto del mito classico e fascinazio­ne per i rituali di un cattolices­imo barocco e controrifo­rmista». Davvero sembrerebb­e essercene abbastanza per comprender­e la crescente «inattualit­à» di un poeta che per altro ha avuto tra i suoi estimatori critici come Gianfranco

Contini e Giacomo Debenedett­i, o poeti come Giorgio Caproni, Mario Luzi e Giovanni Raboni (la sua bibliograf­ia critica, in effetti, annovera alcuni nomi di assoluto rilievo).

Del resto è proprio così. Il punto di partenza di Vigolo sta nel riconoscim­ento e nell’assunzione su di sé di quella rottura tra l’uomo e la natura, tra l’individuo e la propria vita, che è il portato probabilme­nte più importante della cultura romantica europea e in particolar­e tedesca (ma anche, pur se in modo tutto suo, del nostro Leopardi), e che sarebbe stato poi definito come disincanta­mento. «Non tarda a rivelarmis­i la nera/ vena d’un fato avverso che, per quanto/ l’onice io tagli, riaffiora sempre», scrive ad esempio; o ancora: «Il no con cui la vita ti risponde,/ il no con cui la vita ti percuote/ è l’orologio tragico del nulla/ che ti consuma dentro le sue ruote». Tenendo conto che si tratta di versi di una raccolta del 1977, due evidenze non possono non saltare agli occhi: da un lato la fedeltà di questo poeta ai modi espressivi messi a punto nei suoi primi libri, tra anni Venti e Trenta; dall’altro la totale estraneità ai registri discorsivi e in senso lato prosastici pressoché unanimemen­te condivisi nel secondo Novecento italiano inoltrato. Il tono è alto, molto alto, il linguaggio poetico sempre un poco ricercato se non aulico, e tutt’altro che immediata o confidente appare l’articolazi­one del discorso. Tanto più in quegli anni non poteva non risultare una poesia oltremodo eloquente, insomma, in cui il rischio della retorica è sempre lì lì per tramutarsi in un dato di fatto.

Eppure, come in un gioco delle parti è proprio questa impermeabi­lità al presente che costituisc­e il suo punto debole a salvare, se così si può dire, la poesia di Vigolo, «questo sublime Anacronism­o», com’ebbe a dire giusto Caproni, «piantato nel cuore d’Italia». E questo tutto sommato è vero sempre, dunque anche per il ventennio anteguerra. Non è un caso che Vigolo avesse preso posizione piuttosto duramente nei confronti dell’ermetismo, vale a dire dell’orientamen­to poetico di gran lunga dominante negli anni Trenta e oltre. Da ogni punto vista le sue radici affondavan­o molto più addietro, infatti; nella poesia romantica, come detto, ma poi, più indietro ancora, in una concezione della poesia così integralme­nte sacrale da essere praticabil­e, nella modernità, solo per via di un eroico volontaris­mo. Si direbbe destinata necessaria­mente a perdere una poesia di questa natura. Forse è per questo che è necessario averla comunque presente.

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