Corriere della Sera - La Lettura
Segui il gatto, troverai il colpevole
Nella nuova indagine dell’ispettrice Nives Bonora, Cinzia Bomoll affida ai felini un ruolo decisivo per scoprire che cosa c’è dietro una confraternita dedita ad aiutare i bisognosi. Mentre per la protagonista si apre una difficile fase familiare
Sono davvero tanti i gatti al centro di Non dire gatto di Cinzia Bomoll. E però, salvo il gattino nero dagli «occhietti semichiusi per una congiuntivite grave. Molto magro», spuntato come un sopravvissuto, che la protagonista Nives Bonora prende con sé, in tutti gli altri casi, salvo che si tratti di carcasse quali resti di riti iniziatici, si tratta di gatti variamente tatuati su braccia e collo dei vari personaggi. E tutto questo perché, di fatto, protagonista sotterraneo di quanto avviene di misterioso nel romanzo è proprio il gatto in quanto simbolo: «animale magico, collegato a forze supreme».
Ed è proprio un gatto tatuato sul braccio del collega della Scientifica Fabio Pizzi, il poliziotto che s’è invaghito di Nives nel corso della precedente indagine narrata in La ragazza che non c’era ,da lei trovato sanguinante sulla porta di casa e per di più colpito con la sua stessa pistola da qualcuno entratogli in casa, e salvato proprio dal pronto intervento di lei, a fungere da premessa per l’indagine che di lì a poco si svilupperà. Un’indagine molto complicata sotto diversi punti di vista, perché entra immediatamente in gioco il capo di Nives, il commissario Brandi, con cui la poliziotta ormai da tempo ha una storia altalenante fatta di scontri continui, frutto a volte d’una incontrollabile «forma d’odio istintivo verso l’uomo che avrebbe voluto amare e basta», per di più qui ingelosito non senza motivo, che decide di estrometterla dall’indagine con la scusa di essere «emotivamente troppo implicata». Di qui, da parte dell’ispettrice di polizia Nives, la decisione di condurre un’indagine parallela, essendo per di più lei sola a conoscere indizi fondamentali sul caso. Una indagine nel segno della rivalsa contro «quegli stronzi» di colleghi maschilisti, tra i quali si sente «un pesce fuor d’acqua» tanto da studiare da commissario per allontanarsene, condotta seguendo piste che proprio quel tipo di legame con Fabio le consentono. A partire dalla sorella di lui, Delcisa, paralizzata alle gambe per via d’un incidente stradale del quale il fratello si sente responsabile, con quanto ne sarebbe seguito nel cercar di proteggere la sorella da circonvenzioni. La sorella però a sua volta porta sul braccio il tatuaggio del medesimo gatto di Pizzi: il loro gatto, quello «che ci siamo tatuati, io e mio fratello», aggiungendo: «Me l’hanno fatto ammazzare. Loro», nel corso d’uno di quei riti iniziatici nel quale i felini vengono fatti «trascendere» in quanto «grazie a loro noi riceviamo un’energia nuova. Sublime. Tramite loro anche noi ci innalziamo».
Non ci vuol molto perché Nives scopra che alle spalle di tutto ciò agisce «gente che ha un’organizzazione per aiutare le persone con dei problemi», come apmanzo, punto Delcisa, attratta con la tecnica del «love bombing: l’approccio affettivo, anche falsamente amoroso, per reclutare “nuovi clienti”», e alla quale forse Pizzi era «andato a rompergli i coglioni».
Delcisa però è diffidente nei suoi confronti (e certe ambiguità della ragazza saranno confermate dalla chiusa del rodi fatto rinviante a una successiva puntata); almeno sinché viene «ritrovato incastrato tra i rami sulla riva del Po di Volano, in zona Tresigallo. Annegato» con vicino un biglietto con scritto «non ce la faccio più», il ragazzo invalido, a sua volta tatuato, che l’aveva attratta in quella che sempre più si rivela una setta: la Confraternita della Guarigione, sempre pronta ad aiutare «tutti quelli con dei problemi. Sia fisici sia psicologici. Sia economici», sfruttando dietro versamento di denaro il loro il «bisogno di qualcosa in cui credere, di una speranza»: per Delcisa, la promessa che sarebbe tornata a camminare.
La setta «aveva i suoi artigli in profondità», in quella chiusa comunità della provincia ferrarese, «un mondo che sembrava correre in maniera diversa dal resto», e che non esita a eliminare chiunque sia stato avvicinato da Nives; governata da un «gran maestro» che si porta tatuato sul petto «un gatto che sembra che insegua con gli occhi» gialli, ma con un particolare che alfine ne consentirà l’identificazione, e i cui comportamenti sveleranno una singolare storia personale che viene da lontano.
Nives in questo secondo romanzo vive anche una nuova fase familiare. Perché a tornare a casa è quella madre che venticinque anni prima «se n’era andata un giorno all’improvviso», nell’Europa del Nord, e con la quale aveva però nel frattempo instaurato un segreto quanto insolito rapporto epistolare: non «normali lettere, ma poesie». Un ritorno osteggiato dal padre, ex maresciallo dei carabinieri, a sua volta qui presente con un ruolo attivo, perché tanti anni prima indagando su un omicidio si era imbattuto già in questa setta, salvo ritrovarsi osteggiato dai colleghi, al punto da vedersi chiudere l’indagine. Nives anche qui porta sempre con sé nella tasca dei pantaloni il suo «fedele taccuino» sul quale «mischiava i dettagli delle indagini e le sue specie di poesie sulle emozioni che la assalivano. Una mania che la accompagnava da ancor prima di entrare in polizia», al quale ha affidato il suo sentir la propria vita come «un perenne bungee jumping tra paradiso e inferno».
Anche qui dunque un doppio percorso narrativo: quello pubblico del giallo, che assorbe anche il lavorativo, sempre più intricato per via della contrapposizione con l’indagine ufficiale; e quello privato, familiare, che con la figura del padre si intreccia col giallo, e che offre soprattutto nella figura di nonna Argenta un personaggio notevole, risultando invece più pallida la madre; e dove la centralità di Nives rischia di soffocare gli altri personaggi, più risolti nel primo romanzo. Ben gestita poi la tensione narrativa (meno la cura tipografica, con qualche refuso di troppo).