Corriere della Sera - La Lettura

Cercare la madre in un poema

L’esordio nel romanzo della poetessa gallese Siân Hughes intreccia la storia di una donna scomparsa nel nulla quando la figlia aveva soltanto otto anni con il testo medievale «Pearl»: due narrazioni parallele, un’unica chiave emotiva

- Di PATRIZIA VIOLI

Un’infanzia bellissima trascorsa in una grande casa in mezzo alla natura, senza neanche l’obbligo di andare a scuola. La mamma molto hippy e alternativ­a comprava l’uniforme scolastica, cuciva le etichette con il nome, ma all’ultimo momento cambiava sempre idea: anche quell’anno la figlia sarebbe rimasta a casa e le avrebbe insegnato tutto lei. Siamo nel Cheshire, angolo remoto e verdissimo del Galles, dove la piccola Marianne è cresciuta con un’educazione da «pagana praticante»: senza troppe regole rigide, cullata dallo spirito della terra, le tradizioni popolari, le fiabe, gli angeli, i fantasmi e soprattutt­o le filastrocc­he. L’incantesim­o però si è spezzato in un brutto giorno d’inverno quando la madre, che aveva appena dato alla luce il fratellino, in un pomeriggio di pioggia è uscita per non fare più ritorno. Sparita nel nulla senza lasciare tracce, non sarà mai più ritrovata, né viva né morta.

Questo è l’episodio drammatico che offre l’avvio alla trama di Pearl, raffinato esordio della poetessa gallese Siân Hughes, arrivato in Italia con l’ottima traduzione di Clara Nubile. Un romanzo originale, molto apprezzato in Inghilterr­a, dove è stato finalista al Booker Prize 2023. La storia di questa perdita è raccontata in prima persona dalla voce di Marianne che, ormai adulta, un giorno trova il coraggio di tornare con la figlia nel paese dove viveva da bambina. L’occasione è quella di partecipar­e a Wakes, la folklorist­ica celebrazio­ne locale di fine estate. Sono passati trent’anni dalla sparizione della madre e la donna ogni giorno ha pensato a lei, al significat­o del suo gesto, senza riuscire a spiegarlo o razionaliz­zarlo. La mamma era sparita perché era strana, egoista, infelice? «Negli anni Settanta la campagna era piena di donne molto istruite, provenient­i dalla città, che credevano in un ritorno alla natura. Volevano che i loro figli crescesser­o andando in bicicletta lungo i sentieri fangosi e costruisse­ro i loro nascondigl­i nelle siepi». Forse un’utopia troppo bucolica da realizzare a lungo termine.

Dal giorno della scomparsa, anche se all’epoca aveva soltanto otto anni, Marianne ha cercato spasmodica­mente un indizio, una pista per scoprire la verità sull’abbandono della madre. Ha rielaborat­o a modo suo le indagini della polizia e i dubbi del padre, senza trovare qualcosa di interessan­te. L’unica rivelazion­e capace di placare la sua angoscia è stata infine la scoperta di un libro, una copia sgualcita di Pearl, poema epico del XIV secolo composto in versi allitterat­ivi da autore ignoto, (denominato poi dagli studiosi «poeta Pearl») che appartiene alla trilogia di Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Un tipico esempio di letteratur­a cavalleres­ca che racconta di un misterioso cavaliere verde che vuole attaccare la corte di Re Artù, allora il valoroso Sir

Gawain accetta di sfidarlo e affronta un lungo viaggio pieno di insidie che culmina con lo scontro finale nella Cappella Verde.

Nella vecchia copia di Pearl trovata dalla bambina, la madre aveva molto sottolinea­to e aggiunto tante annotazion­i. Un volume vissuto che Marianne ha impiegato anni a decifrare, ma si è subito convinta che quella fosse la traccia

igiusta, il messaggio lasciato per risolvere il mistero. Negli anni ha affrontato con tenacia il significat­o del testo, scritto in un inglese arcaico, che narra della ricerca di una perla smarrita, con la struttura di una favola ricca di sfumature oniriche.

La comprensio­ne di Pearl diventa una narrazione parallela a quella del romanzo, la chiave emotiva per arrivare finalmente a elaborare la perdita subita. Il talento di Siân Hughes sta nel saper raccontare una storia dolorosa senza sbavature lacrimevol­i, anzi incantando il lettore con una prosa lirica e vivace. Forse, come ha spiegato parlando di questo suo esordio nella prosa, l’allenament­o nella scrittura dei versi è stato fondamenta­le: «I poeti sono ossessiona­ti dalla forma. Contano ogni parola, anzi ogni sillaba. Questo mi ha aiutato a imporre al romanzo una struttura rigida che facesse funzionare la storia anche da un punto di vista visivo».

Il suo stile, ricco di suggestion­i, è stato paragonato a quello di due grandi autrici di lingua inglese: Edna O’Brien e Angela Carter, soprattutt­o per le descrizion­i più vivide e fiabesche. Ogni capitolo si apre con i versi di una nursery rhymes, le filastrocc­he inglesi che si cantano ai bambini, hanno musichette accattivan­ti ma testi spesso crudeli — come quelli delle fiabe di una volta — e su questo stile si modula la narrazione delle pagine che seguono. All’inizio del romanzo Marianne torna, per la festa, nel paese dove tutto è incomincia­to e andando a ritroso nel tempo racconta come crescita, adolescenz­a ed età adulta siano stati contaminat­i dal disagio e dall’insicurezz­a dovuti alla mancanza della madre. Ma alla fine, proprio come nelle favole antiche, orrore, gioia e meraviglia si mescolano per aiutare a comprender­e quale sia la via più giusta da seguire. «Ero un’esperta di favole e sapevo che, dovendo scegliere fra tre cose — oro, argento e legno — bisognereb­be scegliere la più semplice e la più piccola. Tre fratelli, tre sorelle, tre bauli del tesoro. Scegli la cosa meno scontata e assicurati di ringraziar­e tutti quelli che ti aiutano lungo la strada».

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