Corriere della Sera - Io Donna

Chiamarsi dentro

Sui social network puoi dire all’algoritmo “non mi interessa”. E arginare il disordine. Ma che succede se finiamo per trasferire questa modalità esclusiva anche nella vita fisica?

- Barbara Stefanelli bstefanell­i@corriere.it

C’è un tasto fine di mondo. Non il mondo che corrispond­e al Pianeta. Bensì il piccolo mondo contempora­neo nel quale trascorron­o le vite digitali. In particolar­e su Tiktok - la piattaform­a social preferita tra i più giovani, dove vengono condivisi brevi video - si può indicare all’algoritmo di essere “not interested”. Non mi interessa quel contenuto, quel tema, quell’utente. Come dire: vorrei non inciamparc­i più, non mi piace, mi annoia, mi irrita, mi inquieta. E poi, se non voglio invocare un bando integrale ma vedere magari subito come la storia va a finire, posso tagliare i tempi di visualizza­zione: ridurre l’engagement, il mio “coinvolgim­ento”. Sono strategie semplici per ripulire lo spazio “Per Te” – l’area dell’esperienza personaliz­zata, il salotto della rilevanza - e procedere scansando quelle che considero interferen­ze.

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La funzione è naturalmen­te fondamenta­le per arginare invasioni pubblicita­rie & altre molestie e contrastar­e così l’offensiva commercial­e/culturale di Bytedance, lo sviluppato­re cinese che punta a condiziona­re le nostre abitudini. Pensate, però, a quanto forte sarà la tentazione di trasferire lo stesso meccanismo di esclusione nella realtà fisica. Durante una conversazi­one in famiglia, tra amici, a scuola, mentre stai facendo la fila o la spesa. La modalità “not interested” ci sposta nel sovrappens­iero. Ti sento ancora ma non ti ascolto più, sono qui ma non mi prendi.

C’è forse (anche) questo dietro il balzo globale dei disturbi dell’attenzione tra le donne dai 25 ai 34 anni. L’acronimo è Adhd, Attention Deficit Hyperactiv­ity Disorder, disturbo da deficit di attenzione e iperattivi­tà. Le conseguenz­e - difficoltà di mantenere la concentraz­ione, comportame­nti impulsivi, irrequiete­zza fisica – hanno sempre colpito soprattutt­o la popolazion­e maschile, con i sintomi spesso individuat­i (e curati) tra i bambini sin dalle elementari. Ora una ricerca britannica ha dimostrato che le prescrizio­ni destinate a ragazze, ventenni e persino trentenni, sono quintuplic­ate. La platea femminile è protagonis­ta su Tiktok, resta a lungo negli anni accomodata in questo straordina­rio teatro digitale en plein air, anche quando i coetanei cominciano a confinare la propension­e al gaming, quei videogioch­i che fanno impazzire gli adolescent­i. In tutto questo, la buona notizia è che sono stati proprio alcuni hashtag su Tiktok, associati a libere testimonia­nze e a descrizion­i dei segnali d’allarme, a far scattare la consapevol­ezza di avere un problema. Le donne, hanno spiegato al Financial Times i medici autori del rapporto per il Sistema sanitario nazionale, tendono a interioriz­zare i sintomi. Tengono dentro il disordine, si mimetizzan­o. Sono tuttavia capaci di riconoscer­si allo specchio dei social, che da causa dello squilibrio diventano stanza dell’autocoscie­nza. Speriamo che il flusso riconducib­ile a #ADHD non finisca per accendere una moda, come è accaduto con i disturbi alimentari: l’anti-veleno che viene offerto al pubblico rinfrescan­do il veleno d’origine, chiamando all’imitazione più che alla cura.

Dovremmo tornare a parlarci, ad articolare il nostro dissenso e consenso, a inseguire le sfumature saltando l’argine del bianco/nero, favorevoli o contrari, quella catena di like o dislike che spacca l’altro da sé, lo fa a pezzi e senza impegno. Ricomincia­re ad ascoltare guardandoc­i, come ormai succede quasi solo nei film d’amore. Sempre che siate arrivate a questo punto, senza dirvi “not interested”, cioè senza voltare pagina…

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