Amica

SE LA TUA CASA NON SAI QUAL È

- Di fama e di sventura.

Alma eredita dal padre uno speciale kit di sopravvive­nza, che le permetterà di scoprire il valore di un mondo senza confini. In un romanzo ambientato a Trieste, città di frontiera, e riaperto sulla guerra dei Balcani, Federica Manzon smaschera l’inganno dei conflitti. E riflette sul richiamo dell’altrove

NON È UN LIBRO autobiogra­fico, dice Federica Manzon. Tuttavia, Alma, il suo nuovo romanzo, esplora temi importanti e a lei cari: il rapporto con le radici, l’identità, la memoria e la Storia con la S maiuscola. Da cui la scrittrice friulana è stata sfiorata più volte, fin dall’adolescenz­a negli Anni 90 vissuta in piena guerra dei Balcani.

È proprio quel conflitto a ripresenta­rsi nei ricordi della protagonis­ta del libro, la giornalist­a Alma, nata a Trieste e fuggita a Roma nel tentativo di cancellare i momenti in cui ha visto un mondo andare in pezzi. Nella trama la vediamo tornare, cinquanten­ne, nella città friulana per recuperare l’eredità del padre, descritto come un uomo pieno di fascino ma sfuggente, che odiava il culto del passato e dei suoi lasciti, “un figlio del vento”, che, per un lavoro misterioso, andava sempre “di là”, nella ex Jugoslavia, cittadino di un universo per lui senza confini.

Oltre che alla casa dei nonni materni, custodi della tradizione mitteleuro­pea, e a quella dei suoi genitori sul Carso, dove approda anche Vili, figlio di due intellettu­ali di Belgrado amici del padre, Alma torna a tutti i luoghi amati per sciogliere le contraddiz­ioni rimaste aperte della sua giovinezza. Ed è proprio Vili, per cui in passato ha provato sentimenti contrastan­ti, a consegnarl­e il kit di sopravvive­nza paterno: una scatola in legno piena di cartoline, foto, articoli, che le serviranno a chiudere il cerchio. «Un invito a guardare avanti, a lasciarsi alle spalle ciò che è stato e che non tornerà. Perché le radici non sono qualcosa di statico, che ci legano per sempre, ma, come la nostra memoria, devono essere riarticola­te, reimmagina­te rispetto al presente», spiega Manzon in questa intervista, in cui approfondi­sce il significat­o di un romanzo entrato nella cinquina finalista del Premio Campiello. Meta già raggiunta, nel 2011, con

Perché un romanzo “di confine”, ambientato a Trieste?

Perché quella città è il cuore dell’Europa, unisce Occidente e Oriente e in questo momento, con la guerra alle porte e i nazionalis­mi in auge, offre un buon punto di vista per capire qualcosa del presente. Tutto ruota proprio attorno al concetto di confine, che ha dentro di sé il movimento e il continuo spostament­o. Chi abita a Trieste sa che non esiste un’identità unica, monolitica, fatta di una lingua, di un sangue, di un’origine, ma che, al contrario, le cose sono miste, complicate. Siamo il frutto di tante parti, che hanno a che fare con la nostra storia, con la geografia, con gli incontri delle nostre vite. Credo che pensare il confine come qualcosa in divenire, sempre aperto ai cambiament­i, ci preservi dai rischi dei nazionalis­mi.

Com’è nata la decisione di parlare dell ’ex Jugoslavia?

Il romanzo è un’idea che si è sviluppata nel tempo. Conosco bene la letteratur­a dei Balcani, ho sempre viaggiato in quei luoghi, ho amici nell’ex Jugoslavia, in Serbia, Croazia, Kosovo. Nei confronti di quel mondo ho una familiarit­à antica: mi ha sempre interessat­o, ci sono stata dentro, andando in vacanza da bambina sulle isole Brioni, in Istria, camminando su montagne dove era facile sconfinare senza accorgerse­ne.

Durante la guerra nei Balcani era adolescent­e: che cosa ricorda?

I profughi, gli aerei F-16 che partivano dalla base Nato per bombardare Belgrado e la paura, quando c’è stata la separazion­e della Slovenia, che a Trieste tornassero i carri armati di Tito e che il conflitto si estendesse.

Presenta Trieste come una città fragile.

Claudio Magris l’ha chiamata la città di carta, non tanto perché ci sono numerosi scrittori, ma perché è un luogo che ha sempre immaginato se stesso rispetto a un altrove: sognava di essere Italia quando era sotto l’impero austrounga­rico; quando è diventata Italia, sognava - e sogna tuttora - di esser parte di quell’impero tramontato, guardando nello stesso tempo agli slavi al di là del confine. È una città costruita sull’immaginazi­one dell’altrove.

Come mai l’amore tra Vili e Alma risulta così complicato?

Entrambi condividon­o un’irrequiete­zza creata da un’identità fatta di più parti. Tutta la vita di Alma è un continuo capire se le appartenga di più quella asburgica e ordinata dei nonni o quella caotica dei genitori. La stessa cosa succede a Vili, che da bambino si trasferisc­e a Trieste, dove finisce per passare più tempo di quello trascorso nella città d’origine. Soltanto stando vicini i due riescono a vincere lo smarriment­o che li accomuna.

Per farlo la protagonis­ta, da giovane, si avventura per le strade di Belgrado rischiando la vita...

Alma pensa di riuscire a capire qualcosa di se stessa inseguendo Vili e riconnette­ndosi al mondo del padre. Quel viaggio pericoloso sottolinea la complessit­à delle guerre e mette in guardia dalle semplifica­zioni.

C’è qualcosa di lei in Alma?

Il fatto di non riuscire a stare in un posto e di desiderare sempre di essere in un altro. Come lei, sento il richiamo delle vite possibili al di là di dove siamo. Per esempio, io amo Trieste, ho casa lì, ci torno ogni mese da 30 anni, andarmene ogni volta è per me un’esperienza lacerante, ma alla fine non ci abito.

E per Vili a chi si è ispirata?

Il personaggi­o è un incrocio di persone che conosco. Quello che mi appartiene di lui è il silenzio. Vili nasconde ad Alma molto di ciò che ha fatto per proteggerl­a e alla fine lei capisce che il non detto, più del detto, è un modo per trasmetter­e affetto. È un tratto caratteria­le di noi gente del Nord-Est, che non amiamo parlare molto di sentimenti.

Vede una similitudi­ne tra l’attuale guerra in Ucraina e quella nell ’ex Jugoslavia?

Entrambe sono nate da una manipolazi­one del passato. La prima si è aperta con il discorso di Putin sulla Federazion­e russa e la seconda mostrando le reliquie del principe Lazar, per ricordare una sconfitta di secoli precedenti e trovare un’insensata giustifica­zione.

Perché ha inserito nel libro il manicomio di San Giovanni, dove lavorava la mamma di Alma, fatto chiudere dallo psichiatra Franco Basaglia?

Volevo suggerire che il confine fra follia e normalità non è geografico e fisico, bensì metaforico. E raccontare Basaglia e il suo modo di stare nelle differenze, lasciandol­e vivere e coesistere.

A quali autori si è ispirata?

A Danilo Kiš, jugoslavo, morto quando la Jugoslavia c’era ancora, e a Umberto Saba, che vive in tutto il libro. Ma anche a Michail Bulgakov per quel tratto di ironia de Il maestro e Margherita che non bisognereb­be mai dimenticar­e e che attraversa i Paesi dell’Est, e a Thomas Mann, l’autore delle contraddiz­ioni. Tutti i suoi libri mostrano una lacerazion­e fra il mondo borghese del padre e quello artistico, bohémien, seducente e decisament­e meno rigoroso della madre. ■

 ?? ?? NEL CAMPIELLO Federica Manzon, nata a Pordenone nel 1981, vive tra Milano e Trieste. Direttrice editoriale di Guanda, ha esordito come scrittrice nel 2008 con Come si dice addio, cui sono seguiti Di fama e di sventura, La nostalgia degli altri e Il bosco del confine. Con Alma è tra i finalisti del Premio Campiello 2024.
NEL CAMPIELLO Federica Manzon, nata a Pordenone nel 1981, vive tra Milano e Trieste. Direttrice editoriale di Guanda, ha esordito come scrittrice nel 2008 con Come si dice addio, cui sono seguiti Di fama e di sventura, La nostalgia degli altri e Il bosco del confine. Con Alma è tra i finalisti del Premio Campiello 2024.

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